giovedì 19 novembre 2015

L’Alluvione e l’attesa

“Capita che sfiori la vita di qualcuno, t’innamori e decidi che la cosa più importante è toccarlo, viverlo, convivere le malinconie e le inquietudini, arrivare a riconoscersi nello sguardo dell’altro, sentire che non ne puoi più fare a meno… e cosa importa se per avere tutto questo devi aspettare cinquantatré anni sette mesi e undici giorni notti comprese?”.
(Gabriel García Marquez)
Da qualche tempo nel nostro vocabolario la parola – alluvione- è entrata di prepotenza ed è divenuta di uso quotidiano. Notizie, filmati, scene angoscianti ci perseguitano, ci rendono chiari i nostri limiti e la pochezza politica degli ultimi decenni, che ha sacrificato la tutela del territorio a interessi personali. Nessuno può dirsi indenne dall’alluvione. Biblicamente Noè rappresenta il salvatore degli innocenti, il fidato uomo cui Dio diede il ruolo di costruire l’Arca. Dio fece un patto con Noè e la sua famiglia, li scelse e li salvò, purché portassero in salvo gli animali, affinché, una volta finito il diluvio, la terra potesse rigenerarsi. Un atto di amore infinito verso il creato. Noè lo fece e poi attese. Le alluvioni del nostro tempo, sono meno speranzose e certamente più frequenti. L’alluvione però non è solo un fatto fisico, non è solo acqua che scorre, ma è il caos che connota il nostro tempo. Anche dalle nostre parti si sta verificando una specie di alluvione e l’altra sera durante il consiglio comunale ne abbiamo avuto un esempio plastico, quando un vecchio, (il più vecchio così si definisce lui stesso) politico che ancora amministra, tentava in tutti i modi di arginare, di tamponare, con veemenza, nervosismo ma, anche con tanta stanchezza e poca convinzione, le tante incongruenze riguardanti la questione del teatro Fontanelle. E più venivano giù come l’acqua impetuosa, più di affaticava.  Dentro l’alluvione, crescono e si annidano anche vari personaggi, vecchi per lo più, che magari hanno anche avuto ruoli politici o amministrativi e che oggi, stanno a guardare. Stanno quatti, non si esprimono pubblicamente, anche se ne hanno i mezzi. Attendono e basta. Alcuni si sono rifatti in parte una nuova immagine, altri sono affacciati alla finestra a guardare l’acqua che scorre con violenza e porta via, distrugge, con foga e forza quel poco che resta. La loro arte è l’attesa, la pazienza, forse anche la certezza di fare parte di una cerchia che tornerà in auge e quindi più silenzio c’è meglio è. Meno esposizione c’è meglio è. Fanno squadra tra loro.  Pochi sono quelli che si battono perché non restino solo macerie e dagli attendisti, che danno un colpo al cerchio e uno alla botte, sono anche snobbati, attaccati, messi a tacere. Durante l’alluvione c’è uno strano clima, l’atmosfera è rarefatta, la dialettica è solo posta a livello personale, meglio attaccare chi si espone che non esporre la propria opinione su quanto sta accadendo, per esempio, al teatro “Le Fontanelle”. Il Bene Comune, questo sconosciuto. Eppure, nel passato per molto meno hanno protestato, vilipeso, forse anche offeso.

Attendono, ma non  come  l’uomo innamorato di Marquez. Loro  sanno che più attenderanno, più faranno ritardare la catastrofe e così sarà più facile la conquista del potere. Oggi in politica l’attesa è tutto. E allora cosa fare? Continuare, a scrivere, a far notare, evidenziare tenendo d’occhio tutti quelli che attendono restando in omertoso silenzio. Perché chi tace acconsente, e chi acconsente si compiace…ma alla lunga non è detto che piaccia.

giovedì 12 novembre 2015

Il Gattopardo, un libro sempre attuale.


Il Gattopardo è uno dei classici più belli ed espressivi della storia della letteratura italiana del Novecento. L’autore, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, discendente dei Principi Salina di Donnafugata, taciturno e solitario, non ebbe la fortuna di conoscere il successo del suo unico romanzo. Il Gattopardo, infatti, sarà pubblicato dopo la sua morte.
Il romanzo ebbe subito successo, vinse anche il Premio Strega, forse molti lettori ebbero la possibilità, leggendolo, di conoscere una parte della storia della Sicilia. Tra le pagine più belle del romanzo vi è l’incontro tra il Principe Fabrizio e Chavalley, incaricato dal Governo Sabaudo, di incontrarlo per proporgli un seggio nel nuovo Senato dopo l’unità d’Italia.
Il dialogo tra i due è ricco di toni solenni, malinconia, consapevolezza che il Principe oppone allo “sprovveduto” Chavalley.
Racconta il Principe cosa sono i Siciliani, come la loro storia sia piena di dominazioni, e come tutte queste dominazioni non hanno mai cambiato nulla. Siamo arabi, normanni, greci, fenici, saremo forse sabaudi ma nulla cambierà. Contro la volontà di Chavalley di volerlo convincere a tutti i costi, il Principe traccia un percorso condito di quell’amara verità di chi sa che una storia si è finita per sempre. Ha la consapevolezza che non è più il tempo dei Gattopardi ma degli sciacalli, di coloro i quali inseguiranno il potere per fini propri, non per quello che Chavalley racconta.
Nel non accettare la proposta, il Principe, non rinuncia al nuovo, all’ennesima dominazione. Egli rinuncia per coerenza rispetto a un passato che ha avvantaggiato lui e la sua stessa famiglia. Il carattere dei Siciliani, è come il clima, torrido per sei mesi e con piogge torrenziali che allagano impetuosamente. Non guadano al futuro ma all’imminente, fieri e convinti di avere il passato migliore.
In Sicilia non c’è la norma, tutto è regolato dall’altezzosità del Siciliano, dal carattere lento che il caldo ci impone. Siano proprio stanchi perché dominati, perché non ci siamo mai messi alla prova. Semplicemente qualcuno ci penserà come l’ennesimo dominatore.
Nello spaccato del dialogo, ci sono allora due realtà quella dei Gattopardi, la classe dirigente del passato che ha vissuto nei privilegi dei feudi e quella nuova dei Sedara, i nuovi arrampicatori sociali. Che hanno bisogni di acquistare i titoli nobiliari pur di emergere e di darsi una connotazione altisonante. Quella del Principe è un’autocritica spiazzante, sincera, crudele.
Tutto si può comprare, poche sono le eredità che restano, bisogna che tutto cambi perchè rimanga com’è. I Sedara rappresentano i nuovi feudatari, coloro che faranno in modo di gestire il nuovo potere.
La vecchia classe dirigente, rimarrà chiusa nei palazzi, nelle tenute di caccia, nei saloni da ballo che hanno arricchito Palermo più di Parigi.
Sono due mentalità quelle che emergono, da un lato il Principe consapevole che nulla cambierà perché il carattere dei Siciliani non è mai cambiato anzi è stato avallato dalle tante dominazioni, e l’altra quella di Chevalley che crede nel cambiamento e nell’efficienza che porterà lo Stato Sabaudo.
Siamo vecchi, dice don Fabrizio a Chevalley, siamo stanchi, proprio per questo non perdoniamo agli altri di volere fare. Noi non vogliamo fare nulla per natura. La Sicilia è sempre stata Colonia, ha affasciato, ammaliato, conquistato l’animo dei suoi conquistatori ma mai i Siciliani. Il sonno, dunque, è la sola cosa che i siciliani vogliono. Continuare a dormire come hanno fatto per millenni.
Attualissime queste pagine, oggi come allora, nulla è cambiato. Ogni nuovo politico si propone come il cambiamento, come colui che farà le tanto agognate riforme. In Sicilia le parole non hanno mai corrispondenza con la realtà, hanno sempre un altro significato. L’antimafia non è in realtà ciò che la parola significa. La politica non è occuparsi della cosa pubblica ma, del clientelismo dilagante. Il fare è solo in relazione alla corruzione. Non esiste la trasparenza, esistono i debiti di gestioni scellerate, esiste la mancanza del diritto al lavoro, perché dato solo ad alcuni.
Le strade non sono strade ma, trazzere. Le ferrovie non sono tali ma, vie ferrate dove per andate da Trapani a Ragusa ci vogliono sei ore.
Il mare restituisce solo morti e naufraghi che sperano di salvarsi.
Cosa resta? Il sole, il caldo torrido, la stanchezza millenaria; il carattere tronfio, noi siamo Normanni, Greci, Araba, Spagnoli…Noi fummo i Gattopardi e oggi la Sicilia, l’Italia è piena di Sedara, pronti a lisciarsi i baffi del potere. Attuale come allora le pagine del Romanzo sono uno spaccato della nostra società.
Leggere il Gattopardo riporta a un tempo lento e ricco di scene familiari, luoghi, luci e colori sì una Sicilia autentica, bella, rude e affascinante.
Attuale come allora le pagine del Romanzo sono uno spaccato della nostra società.


L’incontro tra il Principe Salina e Chevalley.

…”Ma allora, Principe perché non accettare?”.
“Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò; noi siciliani siamo stati avvezzi da una lunga, lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a sé spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si scampava dagli esattori bizantini, dagli emiri berberi, dai vicerè spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto – adesione-, non avevo detto – partecipazione-. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere ad un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento. Adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che molto sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che lei capirà sa solo quando sarà stato un anno fra noi.
 In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di – fare-. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il là; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quando la regina d’Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è colpa nostra. Ma siamo stanchi e svuotati lo stesso”.
Adesso Chevalley era turnato. “Ma ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la Sicilia non è più terra di conquista, ma libera parte di un libero Stato”.
“L’intenzione è buona, Chevalley, ma tardiva; del resto le ho già detto che in massima parte è colpa nostra. Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; per conto mio vedo piuttosto una trascinata in carrozzino all’Esposizione Universale di Londra, che non comprende nulla, s’impara di tutto, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester, e che agogna soltanto a ritrovare il proprio dormiveglia fra i cuscini sbavati e l’orinale sotto il letto”.
Parlava ancora piano, ma la mano attorno a San Pietro si stringeva; più tardi la crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata.
“Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per potar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, manche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità, voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semidesti; da questo il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando sono defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae soltanto perché è morto”.
Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley: soprattutto gli riusciva oscura l’ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero autentiche vecchie tradizioni. Disse: “ Ma non le sembra di esagerare un po’, Principe? Io stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani emigrati, Crispi per nominarne uno, che mi son sembrati tutt’altro che dei dormiglioni”.
Il Principe si seccò: “Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostro semidesti, del resto, avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma lei forse potrà vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso torpore: lo fanno tutti. D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto dire la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio siciliano. Queste sono le forze che insieme e forse più che le denominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’arsura dannata; che non è mai meschino, terra, terra, distensivo, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre  a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora le piogge, sempre tempestose, che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove due settimane prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati, e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove: tutte queste cose hanno formato il carattere nostro, che così rimane condizionato da fatalità esteriori che da una terrificane insularità d’animo”.
L’inferno ideologico evocato in quello studiolo sgomentò Chevalley più della rassegna sanguinosa della mattina. Volle dire qualche cosa, ma don Fabrizio era troppo eccitato adesso per ascoltarlo.
“Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall’isola possano riuscire a smargarsi: bisogna però farli partire molto, molto giovani; a vent’anni è già tardi: la crosta è fatta: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori. ;a mi scusi, Chevalley, mi son lasciato trascinare e la ho probabilmente infastidito. Lei non  è venuto sin qui per udire Ezechiele deprecare le sventure di Israele. Ritorniamo al nostro vero argomento: sono molto riconoscente al governo di aver pensato a me per il Senato e la prego di esprimere questa mia sincera gratitudine; ma non posso accettare. Sono un rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, ed a questo legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell’affetto. Appartengo ad una generazione disgraziata, a cavallo fra i vecchi tempi e i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non ha potuto fare a meno di accorgersi, sono privo di illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà di ingannare sé stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri? Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a quest’ornatissimo catafalco. Voi adesso avete appunto bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al come più che al perché, e che siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità pubbliche”. Tacque , lasciò in pace San Pietro. Continuò: “Posso permettermi di fare a lei un consiglio da trasmettere ai suoi superiori?”.
“Va da sé, Principe; esso sarà certo ascoltato con ogni considerazione; ma voglio ancora sperare che invec di un consiglio vaglia darmi il suo assenso”.
C’è un nome che io vorrei suggerire per il Senato: quello di Calogero Sedara. Egli ha più meriti di me per sedervi: il casato, mi è stato detto, è antico o finirà per esserlo; più che quel che lei chiama il prestigio egli ha il potere; in mancanza di meriti scientifici ne ha di pratici, eccezionali; la sua attitudine durante la crisi di maggio più che ineccepibile è stata utilissima : illusioni non credo che abbia più di me, ma è abbastanza svelto per sapere crearsele quando occorra. E’ l’individuo che fa per voi. Ma dovete far presto, perché ho inteso dure che vuol porre la propria candidatura alla Camera dei deputati”…
“Principe, ma è proprio sul serio che lei di rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare; se gli uomini onesti si ritirano la strada rimarrà libera alla gene senza scrupolo e senza prospettive, ai Sedara; e tutto sarà di nuovo come prima per altri secoli. Ascolti la sua coscienza Principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Collabori”.
Don Fabrizio gli sorrideva, lo prese per la mano, lo fece sedere vicino a lui sul divano: “ Lei è un gentiluomo, Chevalley, e stimo una fortuna averlo conosciuto; lei ha ragione in tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: “i siciliani vorranno migliorare”. ….” I Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una decine di popoli differenti, essi credono di avere un passato imperiale che da loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero lei, Chevalley di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani musulmani, quanti cavalieri di Re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti leghisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti vicerè spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III: E chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è civile, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta in una parola?
“Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato delle cose, qui come altrove, è del feudalismo; mia cioè, per così dire. Sarà. Ma il feudalismo c’è stato dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati Chevalley, o gli squires inglesi o i signori francesi governassero meglio sei Salina. I risultati intanto sono diversi. La ragione della diversità deve essere in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità. Per ora, per molto tempo, non c’è niente da fare. Compiango; ma in via politica, non posso porgere un dito. Me lo morderebbero. Questi sono discorsi he non si possono fare ai Siciliani: ed io stesso, del resto, se queste cose le avesse dette lei, me ne sarei avuto a male”.
L’indomani mattina presto Chevalley ripartì e a Don Fabrizio, che aveva stabilito di andare a caccia, riuscì facile accompagnarlo alla stazione di posta. Don Ciccio Tumeo era con loro e portava sulle spalle il doppio peso dei due fucili, il suo e quello di Don Fabrizio; e dentro di sé la bile delle proprie virtù conculcate.
Intravista nel livido chiarore delle cinque e mezzo del mattino, Donnafugata era deserta e appariva disperata. Dinanzi a ogni abitazione i rifiuti delle mense miserabili si accumulavano lungo i muri lebbrosi; cani tremebondi li ramestavano con avidità sempre delusa. Qualche porta era già aperta ed il lezzo dei dormienti accumulati dilagava nella strada; al barlume dei lucignoli le madri scrutavano le palpebre tracomatose dei bambini: esse erano quasi tutte in lutto e parecchie erano state le mogli di quei fantocci sui quali s’incespica agli svolti nelle trazzere. Gli uomini, abbrancato lo zappone, uscivano per cercare chi, a Dio piacendo, desse loro lavoro; silenzio atono o stridori esasperati di voci isteriche; dalla parte di Santo Spirito l’alba di stagno cominciava a sbavare sulle nuvole plumbee.
Chevalley pensava: “Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione nuova, agile, moderna, cambierà tutto.” Il Principe era depresso: “ Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli…; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra”.
Si ringraziarono scambievolmente si salutarono. Chevalley s’inerpicò sulla vettura di posta, issata su quattro ruote color di vomito. Il cavallo, tutto fame e piaghe, iniziò il lungo viaggio.
Era appena giorno; quel tanto di luce che riusciva a trapassare il coltrone di nuvole era di nuovo impedito dal sudiciume immemoriale dei finestrini. Chevalley era solo: fra urti e scossoni si bagnò di saliva la punta dell’indice, ripulì un vetro per ampiezza di un occhio. Guardò: dinanzi a lui, sotto la luce di cenere, il paesaggio sobbalzava, irredimibile.