martedì 22 dicembre 2015

Il Fattore K

Galleggiando dolcemente 
e lasciandosi cullare 
se ne scende lentamente 
sotto i ponti verso il mare 
verso il mare se ne và 
chi mai sarà, chi mai sarà 
quell'uomo in frack”.
D.Modugno.
C’è un elemento che distingue da quasi tre lustri la storia politica di Castelbuono. Si dirà che un uomo politico sulla breccia da così lungo tempo sarà indubbiamente affascinante, operativo, lungimirante e concreto, “uni ca si svrazza”. Non si può rimanere a galla per tanto  tempo senza avere queste particolari doti. E invece ancora una volta la comunità castelbuonese riesce ad essere “stupefacente” mediante il Fattore K.
Intendiamoci,  Il Fattore K non è nulla di tutto quello che abbiamo detto sopra. Non è operativo, lungimirante, non ha mai neanche avuto un suo ufficio. E’ l’unico ad avere una sede centrale in paese: Piazza Margherita. Lo trovi sempre lì, come la fontana, la chiesa, l’Ex Banca di corte, le macchine parcheggiate a qualsiasi ora. Il Fattore K c’è sempre è una delle poche certezze che abbiamo! Sciarpa rosso sbiadito e giornale sotto al braccio,  parla, parla, parla con tutti; uomini, donne, anziani, bambini, sedie, pietre e cestini dell’immondizia. Non si lascia scappare nessuno. E’ come la bocca della Verità a Roma. Anche i turisti lo sanno ormai, fa parte dell’itinerario storico monumentale di Castelbuono. Dicevamo che non ha tutte quelle caratteristiche che identificano un uomo politico di “razza”, però, a pensarci bene, una la tiene: la capacità di galleggiare. Lo fa da sempre è lui stesso a dirlo. Quando, infatti, l’opposizione in Consiglio comunale evidenzia le inadempiente dell’Amministrazione, il Fattore K, fa il suo mestiere, come lo ha sempre fatto, si alza e difende l’indifendibile. Lo deve fare, per dovere doveroso. Di più, la frase che dice sempre è: “ Prima puri accussì si faciva, ora vi fati meraviglia, ma sempri accussì sa fatti”. Come se fosse giusto così, dando ragione, non rendendosene conto, a chi mette in evidenza la superficialità e la poca serietà di chi amministra, quindi anche la sua. Forse in modo inconsapevole ci mette in guardia dal fatto che, lui stesso ha sempre fatto parte di amministrazioni che hanno “lavorato” in modo non adeguato? Approssimato? Senza una progettualità? Ai posteri l’ardua sentenza. Il Fattore K s’intende di tutto, il suo sapere va dalla gestione del  “personale”, all’urbanistica, ai lavori pubblici, al traffico, al decoro urbano, alla raccolta differenziata, alla cultura,  (una volta ci disse che lui aveva fatto il liceo classico e che per questa ragione aveva delle competenze provate in campo culturale). Passa dal risparmio energetico a quello della spesa di casa nostra con una nonchalance degna di uno statista. E’ un unicum, maestro-esperto nell’arte del galleggiamento forzato e permette, con la sua capacità innata, di fare galleggiare anche quei “quattro amici al bar” che fanno parte dell’amministrazione. Ora ci chiediamo, se è questo quello che sa  fare bene  il Fattore K, in cosa è stato determinante nelle scelte politiche del passato? Perché ha sempre avuto credito in quelli che hanno scritto la storia politica degli ultimi 30 anni di Castelbuono? La sinistra lo ha allevato e la destra lo ha sollevato e “mantenuto”.  Va in apnea e poi annaspa solo quando,  e gli succede spesso, perde le staffe. Anche lui sa, però, che: …  giunta mezzanotte, si spegneranno i rumori, le luci, i frastuoni;  si spegnerà anche l’insegna del Cin Cin Bar,… le strade sono già deserte, deserte e silenziose, ma un ultimo “randaggio”  moggio, moggio  se ne va….

Lo sa il Fattore K che “la sua lunga e travagliata giornata” è finita? Semmai sia mai cominciata.

lunedì 7 dicembre 2015

Un uomo: l’epica dell’eroe moderno

Leggere “Un uomo” per me è stato fondamentale, è indubbiamente il libro che mi ha cambiato la vita. Oriana Fallaci descrive, con dovizia di particolari il suo incontro con Alekos Panagulis, leader della rivolta contro il regime dei Colonnelli in Grecia. Il libro si apre proprio con la descrizione del fallito attentato che Alekos organizzò con altri, ai danni di alcuni colonnelli del regime. Il libro però è di più, è la storia dell’eroe greco che non si arrende al destino, che lotta per la libertà e per la verità. Come un passaggio di testimone, alla morte di Alekos, avvenuta in un attentato, sarà Oriana Fallaci a continuare la lotta dell’uomo greco, scrivendo la verità sulla sua storia e su parte di quella greca. E’ un libro epico, la storia del singolo diviene storia di un paese, mortificato nel presente e che cerca affannosamente la gloria di un passato glorioso. E’ la tragedia dell’eroe che narra la sua storia, il suo amore, il senso di libertà e di civiltà. E’ la poesia che descrive la realtà e i sentimenti di quest’uomo, mortificati dal regime della dittatura. Questo libro è la Grecia con tutte le sue contraddizioni, è il fiore di gelsomini fuori dalla finestra, è l’isola di creta, dove andare a fare una gita si trasforma in un inseguimento. E’ la madre di Alekos, silenziosa, presente, sempre vestita di nero. E’ il caldo soffocante della casa del giardino di aranci, sono i tanti aerei che Oriana prende per raggiungere Alekos ovunque.  E’ la fragilità di Alekos. E’ la stanchezza che arriva quando la scrittrice decide di sottrarsi a quelle atmosfere cupe e difficili per tornare nella sua quieta e rassicurante New York. E’ il terrore che ciò che è stato, ciò che Alekos ha subito a Boiati possa tornare. E’ il mare cristallino e le strade polverose. E’ un libro forte, violente a tratti che racconta l’umore, l’agitazione, la frustrazione che non si quieta mai. Leggerlo significa immergersi in un mondo che sa di antico in cui gli ideali non muoiono, ma anzi si rafforzano con le sofferenze. La scrittura minuziosa della Fallaci fa sì che il lettore sia un tutt’uno con la storia; chi legge è come se si trovasse lì, ad Atene, a Boiati, nel giardino di aranci, in tribunale…con loro. Si avvertono il senso di paura e l’incolmabile senso d’impotenza verso un mondo truce e corrotto. Il lascito del libro è importante, è un testamento morale, da storia epica, si trasforma in senso profondo di attaccamento a ciò che è il nostro mondo oggi. Sono valori universali quelli che ci racconta la Fallaci, scritto nella seconda metà degli anni settanta, sono odierni ancora oggi. Segno che la ricerca della libertà, della democrazia, del senso di appartenenza a una storia, alla dignità umana sono i valori per cui vale la pena di lottare sempre. Oriana che aveva raccontato i conflitti più cruenti degli anni sessanti, ora racconta la storia del suo uomo, non lasciandosi prendere dal senso di sconforto, ma analizzando con sentimento sì ma anche on obiettività la realtà. Ci insegna che è vero che la storia non si fa con i se, belli i capitoli finali in cui ricostruisce tutta la vicenda raccontando i documenti, non le storie che hanno decretato la morte dell’eroe. Battersi dunque per ciò che appartiene a tutti, farlo da soli, senza interessi personali, è segno di coraggio e di amore verso gli altri. “Un uomo” è tutto questo e molto altro ancora. Buona lettura.

“ Quel grido rauco, rabbioso da belva ferita e umiliata. Quel guizzo selvaggio, quelle braccia tese che mi gremivano e mi scuotevano e infine mi chiudevano dentro una morsa di ferro. Quell’alito caldo, quella bocca avida. E quegli occhi, quegli incredibili occhi nei quali avevo visto la luce d’un bosco  che brucia. Per un istante bravissimo fui sul punto di chiederti scusa, riconoscere che anch’io, sebbene non lo volessi, ti amavo. Ma poi incontrai quegli occhi e un terrore mi trattenne: perché c’era la morte in quegli occhi. Per quanto irrazionale e forzato possa apparire, io ti dico che c’era la morte in quegli occhi, l’annuncio di tutto ciò che sarebbe successo negli anni a venire e non avrebbe potuto succedere senza di me, cioè se io fossi stata lo strumento e il veicolo del tuo destino già scritto.  C’era la sconfitta nata con te, la maledizione che ti avrebbe perseguitato fino a una notte di primo maggio per scaraventarti dentro un buco nero di via Vouliagmeni, lo scivolo di un garage con la scritta Texaco. E poi c’erano le agonie, le servitù che mi avresti inflitto riducendomi a un Sancho Panza con suo ronzino, rubandomi alla mia identità, alla mia vita. Guai, ad accettare il tuo amore ed amarti : lo seppi con certezza, in un lampo. E subito mi liberai del tuo abbraccio, della tua bocca, di te, mi precipitai nell’altra stanza, riempii alla rinfusa la borsa da viaggio, chiamai Andrea, gli chiesi se poteva accompagnarmi all’aeroporto: doveva esserci un volo verso le cinque, con un po’ di fortuna sarei riuscita a prenderlo, bastavano dieci minuti? “Bastano” rispose Andrea scattando. Ritto contro il muro,le mani in tasca e un sorriso enigmatico sotto i baffi, tu seguivi la scena in silenzio e non facevi nulla per fermarmi o calmarmi. Solo dopo che abbi salutato tua madre sclamasti: “ Vengo anch’io”. Quindi mi conducesti all’automobile dove mi sedesti accanto, composto: “Andiamo”. Non dicesti altro per tutta la strada, e neanch’io del resto aprii bocca. Sembrava che non ci fosse più nulla da dire. Giunta all’aeroporto scesi, salutai Andrea, ti strinsi la mano, mi stringesti la mano, e “Ciao, iassu”. Ma avevo fatto pochi passi che la tua voce si levò, secca come un ordine: “Agàpi!”. Mi voltai. La tua destra sporgeva dal finestrino con l’indice e il medio levati a segno di V, e sul tuo volto tremava un’ironia affettuosa. “Tornerai! Vincerò! Tornerai”.
Tornai molto presto. Il primo telegramma era giunto l’indomani e diceva: “ Ti aspetto”. Il secondo dopo due giorni e diceva: “ Che aspetti?” . Il terzo dopo quattro giorni e diceva: “ Sono molto triste perché continui a non avere coraggio”. Poi, la settimana seguente, mentre ero a Bonn, mi fu recapitata una lettera dove annunciavi il ricovero alla Policlinica di via Socratous. Insieme alla notizia c’era una breve poesia: “Pensieri d’amore dimenticati/ risorgono/ e mi portano di nuovo alla vita”. C’era anche una nota: “Per te”. Da Bonn avrei dovuto recarmi a New York. Annullai la partenza e cercai un aereo diretto ad Atene. C’era soltanto quello che decollava da Francoforte nel pomeriggio ma noleggiando una macchina fino a Francoforte sarei arrivata in tempo, disse il portiere dell’albergo. Lo feci. E poche ore dopo sbarcavo nel tuo paese, succhiata dall’inevitabile sorte alla quale non sarei più riuscita a sottrarmi. Perché superava perfino l’istinto della sopravvivenza e l’equivoca insidia della felicita.
La felicità è una risata che scoppia alle nove di sera quando il mio taxi si ferma dinanzi all’ospedale e un’ombra sguscia nel buoi, apre lo sportello, mi piomba addosso e dice all’autista : “Grìgoria! Presto!”. Arrivando t’avevo trovato in una cameretta del reparto di Patologia, circondato di medici e di medicine, e sembravi l’infermo più infermo del mondo: “Sto male, molto male…” Ed ora eccoti qui, tutto vispo, risorto, che mi abbracci in un taxi: “Grìgoria! Presto!”. “Ma che fai?” Che ti prende?”. “Sono evaso!”. “Cosa significa evaso?”. “Significa che mi sono alcato, mi sono vestito, ho tirato una botta in testa all’infermiere e sono venuto qui ad aspettarti”. “Una botta in testa all’infermiere?!”. “Si, non voleva lasciarmi andare. Sosteneva che non si può. L’ho messo lì e gli ho risposto: “Guarda che si può”. “Messo dove?”. “Nel mio letto. Ci starà fino a domattina alle cinque. Alle cinque devo tornare a slegarlo”. “Slegarlo?”. “Si ho dovuto legarlo. E anche incerottargli la bocca. Sennò gridava”. “Non ci credo”. “Infatti non è vero. Non è stata un’azione di forza ma di intelligenza. Senti, gli ho detto, a che ora incomincia il tuo turno di riposo? Alle nove, risponde. E a che ora finisce? Alle cinque, risponde. Abiti lontano? Molto lontano, risponde. Ti piacerebbe dormire comodo senza andare a casa? Eccome, risponde. Bene, questo è il mio letto e questo è il pigiama, io prendo le tue scarpe. L’ho spinto su una sedia, gli ho tolto le scarpe, e via. E’ scemo, non si muoverà dalla camera finchè non torno”. “Sicchè rido, rido, libera di ogni esitazione, paura, divertita a scoprire in te un volto che non conoscevo, nemmeno sospettavo, il volto dell’istrionismo gaglioffo e dell’allegria. E tu ridi con me . confessi d’avermi imbrogliato, oggi non stavi male, fingevi, ti hanno ricoverato alla Policlinica per qualche analisi e basta, domani ti dimetteranno. Ride anche l’autista, senza sapere perché, ci osserva nello specchietto retrovisore e ride mentre il taxi attraversa la città illuminata, entra in via Vouluagmeni, passa dinanzi al garage con la scritta Texaco, ci porta al ristorante dove tre anni dopo mangerai per l’ultima volta, poco prima di andare a morire. Ma se gli Dei ce lo annunciassero per metterci in guardia, se ci dicessero che questo è il tuo destino, il nostro destino già scritto, non ci crederemmo ed io replicherei beffarda che il destino non esiste. “Dove andiamo?” “Da Tsaropulos”. “Cos’è?”. “Un posto all’aperto, vicino al mare, ci si mangia il pesce. Ti piace il pesce? “Si”. “A me no. La vigilia dell’attentato cenai  lì e mangia pesce”. “Perché ci andiamo dunque?”. “Perché stasera possa sfidare anche i pesci”.
La felicità è un orgoglio che vibra quando entriamo nel ristorante trafitti dalle occhiate indagatrici ed ostili di coloro per cui non sei un eore ma un mancato assassino, un sovvertitore dell’ordine, nel miglioredei casi un visionario che dovrebbe starsene dov’era: in un carcere ben sorvegliato. Dai loro tavoli si levano i colpetti di tosse offensivi, bisbligi impauriti: “Lui non è…?!” Un damerino da ambasciata esclama: “Look who’s there! Guarda chi si vede!”. Lo capisci e per un attimo ti coglie una specie di smarrimento, ti appoggi a me come a un bastone, incerto se andare avanti o tornare indietro, poi ti ergi con spavalderia e mi conduci a un tavolo esposto alla loro curiosità. I bisbigli crescono e ciascuno ti ferisce quanto una coltellata, lo vedo, a momenti pieghi il capo come a reprimere il male, sopportarlo meglio: che delusione la libertà, che fatica”. Ma le mie dita cercano le tue, le stringono forte per ripeterti che non sei solo, e il tuo volto s’accende: “ Lo so”. E’ bello vivere insieme la sfida. E’ bello anche accorgersi che qualcuno ti sorride, sia pure di nascosto, con la cautela di chi teme di cacciarsi nei guai. Poi un cameriere coraggioso avanza con una bottiglia di vino e ad alta voce ti dice: “Questa la offro io. E’ un onore, Alekos, averti qui”. Il cielo è uno smalto turchino e fitto di stelle, accanto a noi c’è una pianta che sboccia larghe corolle arancioni, a poco a poco ci isoliamo in un incanto che ci consegna a una specie di oblio. O di incoscienza? Entra una fioraia con un cesto di rose, ne agguanti un fascio e me le getti in grembo. Entra un gobbo con un’asta su cui sono appuntati biglietti di una lotteria, ne compri una fila lunghissima e me le posi sul piatto. Ogni tuo gesto è un ingenuo trasporto d’amore, una goffa preghiera d’essere amato, e la spavalderia di prima s’è dileguata. Ti cade la forchetta, ti cade il cucchiaio, e d’un tratto arrossisci come un bambino, mi porgi il regalo tenuto da parte per il mio ritorno: un foglio spiegazzato, coperto da una calligrafia minutissima. “Alekos! Cos’è?” “La poesia che preferisco, Viaggio. Te l’ho dedicata, guada: c’è il tuo nome ora per titolo”. Poi me la traduci con quella voce che sventra l’anima: “ Viaggio per acque sconosciute su una nave – simile a milioni di altre navi- che vagano per oceani e per mari- lungo percorsi dagli orari perfetti- E molte ancora- proprio molte anche queste- ormeggiano nei porti- Per anni ho caricato questa nave- di tutto ciò che mi davano- e che prendevo con gioia sconfinata- e poi- lo ricordo quasi fosse oggi- la dipingevo con colori smaglianti- e stavo attento- che in nessun punto vi cadesse una macchia- La volevo bella per il mio viaggio- E dopo avere atteso tanto proprio- venne infine l’ora di salpare- E salpai…” Qui ti interrompi, mi spieghi che il viaggio è la vita, che la nave sei tu, una nave che non ha mai gettato l’ancora, che non la getterà mai, né l’ancora degli affetti, né l’ancora dei desideri, né l’ancora di un meritato riposo. Perchè non ti rassegnerai mai, non ti stancherai mai di inseguire il sogno. E se ti chiedessi che sogno non sapresti rispondermi: oggi è un sogno cui dai nome di libertà, domani potrebbe essere un sogno cui dare nome verità; non conta che siano o non siano obiettivi reali, conta rincorrere il miraggio, la luce. “Il tempo passava e io- incominciavo a tracciare la rotta- ma non come mi avevano detto nel porto- sebbene la nave mi sembrasse diversa anche allora- così il mio viaggio- ora lo vedevo diverso – senza più ansia di approdi e commerci- il carico mi appariva ormai inutile- Ma continuavo a viaggiare- conoscendo il valore della nave- conoscendo il valore che portavo…” Ed io non mi stanco di ascoltarti.
La felicità è un abbandono che a mezzanotte conduce alla casa con giardino di aranci e limoni dove entriamo in punta di piedi e incuranti dei poliziotti che controllano ogni tua mossa: due agli angoli della strada e due sul marciapiede. E’ un albero di gelsomini che fiorisce sotto la finestra alla quale ci siamo affacciati perché tu ne colga un ciuffo e tu me l’offra insieme alla tua timidezza. E’ una stanza di cui non vedo più lo squallore, le poltrone unte e sbucciate, i soprammobili brutti, gli assurdi diplomi in cornice: perché ci sei tu. E’ un bacio inaspettatamente pudico sulla mia fronte, mentre il vento fruscia tra i rami d’olivo e ci porta la cantilena del mare. E’ una lacrima che inaspettatamente ti scivola già per la guancia mentre sussurri: “ Sono stato tanto solo. Non voglio più stare solo. Giura che non mi lascerai mai”. E’ il tuo volto serio che si avvicina al mio volto serio, i tuoi occhi commossi che affogano nei miei occhi commossi, le tue braccia incerte che cercano le mie braccia incerte, neanche fossimo due ragazzi al loro primo contro d’amore o sapessimo che ci accingiamo a compiere un rito da cui dipenderanno tutti i nostri anni a  venire E’ un silenzio lungo, impressionante, mentre le nostre labbra si toccano con esitazione, si uniscono con decisione, e i nostri corpi si allacciano senza timore, per adagiarsi, cercando gesti dimenticati, agognati e trovandoli per penetrarsi con armonia, di nuovo ed ancora, ed ancora ed ancora, quasi dovesse durare un’eternità. Il tempo ti appartiene ormai, nessun plotone di esecuzione avanza tra gli ordini secchi per condurti al poligono e fucilarti. Dopo ci fissiamo stremati, la testa appoggiata sullo stesso guanciale, ed esclami: “S’agapò tora ke tha s’agapò pantote”. “Cosa significa?” “Significa: ti amo ora e ti amerò per sempre. Ripetilo”. “Lo ripeto sottovoce: “E se non fosse così?” "Sarà così.” Tento un’ultima vana difesa : “Niente dura per sempre, Alekos. Quando tu sarai vecchio e…” “io non sarò vecchio”. “Si che lo sarai. Un celebre vecchio coi baffi bianchi.”. “Io non avrò mai i baffi bianchi. Nemmeno grigi.” “Li tingerai?” “No, morirò molto prima. E allora si che dovrai amarmi per sempre”. Stai parlando sul serio o scherzando? Mi costringo a credere che tu stia scherzando, una lice beffarda guizza nella tua iride nera e un’allegria fatta di molti domani scatena il tuo corpo che subito mi ricopre insaziabile. Né bisogna ripensare a un dialogo sulla veranda : “Noi greci abbiamo la mania della veggenza e della tragedia. Forse perché l’abbiamo inventata.” “Ma di quale tragedia parla?” “V’è solo un tipo di tragedia e si basa su tre elementi: L’amore, il dolore, la morte”.



giovedì 19 novembre 2015

L’Alluvione e l’attesa

“Capita che sfiori la vita di qualcuno, t’innamori e decidi che la cosa più importante è toccarlo, viverlo, convivere le malinconie e le inquietudini, arrivare a riconoscersi nello sguardo dell’altro, sentire che non ne puoi più fare a meno… e cosa importa se per avere tutto questo devi aspettare cinquantatré anni sette mesi e undici giorni notti comprese?”.
(Gabriel García Marquez)
Da qualche tempo nel nostro vocabolario la parola – alluvione- è entrata di prepotenza ed è divenuta di uso quotidiano. Notizie, filmati, scene angoscianti ci perseguitano, ci rendono chiari i nostri limiti e la pochezza politica degli ultimi decenni, che ha sacrificato la tutela del territorio a interessi personali. Nessuno può dirsi indenne dall’alluvione. Biblicamente Noè rappresenta il salvatore degli innocenti, il fidato uomo cui Dio diede il ruolo di costruire l’Arca. Dio fece un patto con Noè e la sua famiglia, li scelse e li salvò, purché portassero in salvo gli animali, affinché, una volta finito il diluvio, la terra potesse rigenerarsi. Un atto di amore infinito verso il creato. Noè lo fece e poi attese. Le alluvioni del nostro tempo, sono meno speranzose e certamente più frequenti. L’alluvione però non è solo un fatto fisico, non è solo acqua che scorre, ma è il caos che connota il nostro tempo. Anche dalle nostre parti si sta verificando una specie di alluvione e l’altra sera durante il consiglio comunale ne abbiamo avuto un esempio plastico, quando un vecchio, (il più vecchio così si definisce lui stesso) politico che ancora amministra, tentava in tutti i modi di arginare, di tamponare, con veemenza, nervosismo ma, anche con tanta stanchezza e poca convinzione, le tante incongruenze riguardanti la questione del teatro Fontanelle. E più venivano giù come l’acqua impetuosa, più di affaticava.  Dentro l’alluvione, crescono e si annidano anche vari personaggi, vecchi per lo più, che magari hanno anche avuto ruoli politici o amministrativi e che oggi, stanno a guardare. Stanno quatti, non si esprimono pubblicamente, anche se ne hanno i mezzi. Attendono e basta. Alcuni si sono rifatti in parte una nuova immagine, altri sono affacciati alla finestra a guardare l’acqua che scorre con violenza e porta via, distrugge, con foga e forza quel poco che resta. La loro arte è l’attesa, la pazienza, forse anche la certezza di fare parte di una cerchia che tornerà in auge e quindi più silenzio c’è meglio è. Meno esposizione c’è meglio è. Fanno squadra tra loro.  Pochi sono quelli che si battono perché non restino solo macerie e dagli attendisti, che danno un colpo al cerchio e uno alla botte, sono anche snobbati, attaccati, messi a tacere. Durante l’alluvione c’è uno strano clima, l’atmosfera è rarefatta, la dialettica è solo posta a livello personale, meglio attaccare chi si espone che non esporre la propria opinione su quanto sta accadendo, per esempio, al teatro “Le Fontanelle”. Il Bene Comune, questo sconosciuto. Eppure, nel passato per molto meno hanno protestato, vilipeso, forse anche offeso.

Attendono, ma non  come  l’uomo innamorato di Marquez. Loro  sanno che più attenderanno, più faranno ritardare la catastrofe e così sarà più facile la conquista del potere. Oggi in politica l’attesa è tutto. E allora cosa fare? Continuare, a scrivere, a far notare, evidenziare tenendo d’occhio tutti quelli che attendono restando in omertoso silenzio. Perché chi tace acconsente, e chi acconsente si compiace…ma alla lunga non è detto che piaccia.

giovedì 12 novembre 2015

Il Gattopardo, un libro sempre attuale.


Il Gattopardo è uno dei classici più belli ed espressivi della storia della letteratura italiana del Novecento. L’autore, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, discendente dei Principi Salina di Donnafugata, taciturno e solitario, non ebbe la fortuna di conoscere il successo del suo unico romanzo. Il Gattopardo, infatti, sarà pubblicato dopo la sua morte.
Il romanzo ebbe subito successo, vinse anche il Premio Strega, forse molti lettori ebbero la possibilità, leggendolo, di conoscere una parte della storia della Sicilia. Tra le pagine più belle del romanzo vi è l’incontro tra il Principe Fabrizio e Chavalley, incaricato dal Governo Sabaudo, di incontrarlo per proporgli un seggio nel nuovo Senato dopo l’unità d’Italia.
Il dialogo tra i due è ricco di toni solenni, malinconia, consapevolezza che il Principe oppone allo “sprovveduto” Chavalley.
Racconta il Principe cosa sono i Siciliani, come la loro storia sia piena di dominazioni, e come tutte queste dominazioni non hanno mai cambiato nulla. Siamo arabi, normanni, greci, fenici, saremo forse sabaudi ma nulla cambierà. Contro la volontà di Chavalley di volerlo convincere a tutti i costi, il Principe traccia un percorso condito di quell’amara verità di chi sa che una storia si è finita per sempre. Ha la consapevolezza che non è più il tempo dei Gattopardi ma degli sciacalli, di coloro i quali inseguiranno il potere per fini propri, non per quello che Chavalley racconta.
Nel non accettare la proposta, il Principe, non rinuncia al nuovo, all’ennesima dominazione. Egli rinuncia per coerenza rispetto a un passato che ha avvantaggiato lui e la sua stessa famiglia. Il carattere dei Siciliani, è come il clima, torrido per sei mesi e con piogge torrenziali che allagano impetuosamente. Non guadano al futuro ma all’imminente, fieri e convinti di avere il passato migliore.
In Sicilia non c’è la norma, tutto è regolato dall’altezzosità del Siciliano, dal carattere lento che il caldo ci impone. Siano proprio stanchi perché dominati, perché non ci siamo mai messi alla prova. Semplicemente qualcuno ci penserà come l’ennesimo dominatore.
Nello spaccato del dialogo, ci sono allora due realtà quella dei Gattopardi, la classe dirigente del passato che ha vissuto nei privilegi dei feudi e quella nuova dei Sedara, i nuovi arrampicatori sociali. Che hanno bisogni di acquistare i titoli nobiliari pur di emergere e di darsi una connotazione altisonante. Quella del Principe è un’autocritica spiazzante, sincera, crudele.
Tutto si può comprare, poche sono le eredità che restano, bisogna che tutto cambi perchè rimanga com’è. I Sedara rappresentano i nuovi feudatari, coloro che faranno in modo di gestire il nuovo potere.
La vecchia classe dirigente, rimarrà chiusa nei palazzi, nelle tenute di caccia, nei saloni da ballo che hanno arricchito Palermo più di Parigi.
Sono due mentalità quelle che emergono, da un lato il Principe consapevole che nulla cambierà perché il carattere dei Siciliani non è mai cambiato anzi è stato avallato dalle tante dominazioni, e l’altra quella di Chevalley che crede nel cambiamento e nell’efficienza che porterà lo Stato Sabaudo.
Siamo vecchi, dice don Fabrizio a Chevalley, siamo stanchi, proprio per questo non perdoniamo agli altri di volere fare. Noi non vogliamo fare nulla per natura. La Sicilia è sempre stata Colonia, ha affasciato, ammaliato, conquistato l’animo dei suoi conquistatori ma mai i Siciliani. Il sonno, dunque, è la sola cosa che i siciliani vogliono. Continuare a dormire come hanno fatto per millenni.
Attualissime queste pagine, oggi come allora, nulla è cambiato. Ogni nuovo politico si propone come il cambiamento, come colui che farà le tanto agognate riforme. In Sicilia le parole non hanno mai corrispondenza con la realtà, hanno sempre un altro significato. L’antimafia non è in realtà ciò che la parola significa. La politica non è occuparsi della cosa pubblica ma, del clientelismo dilagante. Il fare è solo in relazione alla corruzione. Non esiste la trasparenza, esistono i debiti di gestioni scellerate, esiste la mancanza del diritto al lavoro, perché dato solo ad alcuni.
Le strade non sono strade ma, trazzere. Le ferrovie non sono tali ma, vie ferrate dove per andate da Trapani a Ragusa ci vogliono sei ore.
Il mare restituisce solo morti e naufraghi che sperano di salvarsi.
Cosa resta? Il sole, il caldo torrido, la stanchezza millenaria; il carattere tronfio, noi siamo Normanni, Greci, Araba, Spagnoli…Noi fummo i Gattopardi e oggi la Sicilia, l’Italia è piena di Sedara, pronti a lisciarsi i baffi del potere. Attuale come allora le pagine del Romanzo sono uno spaccato della nostra società.
Leggere il Gattopardo riporta a un tempo lento e ricco di scene familiari, luoghi, luci e colori sì una Sicilia autentica, bella, rude e affascinante.
Attuale come allora le pagine del Romanzo sono uno spaccato della nostra società.


L’incontro tra il Principe Salina e Chevalley.

…”Ma allora, Principe perché non accettare?”.
“Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò; noi siciliani siamo stati avvezzi da una lunga, lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a sé spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si scampava dagli esattori bizantini, dagli emiri berberi, dai vicerè spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto – adesione-, non avevo detto – partecipazione-. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere ad un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento. Adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che molto sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che lei capirà sa solo quando sarà stato un anno fra noi.
 In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di – fare-. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il là; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quando la regina d’Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è colpa nostra. Ma siamo stanchi e svuotati lo stesso”.
Adesso Chevalley era turnato. “Ma ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la Sicilia non è più terra di conquista, ma libera parte di un libero Stato”.
“L’intenzione è buona, Chevalley, ma tardiva; del resto le ho già detto che in massima parte è colpa nostra. Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; per conto mio vedo piuttosto una trascinata in carrozzino all’Esposizione Universale di Londra, che non comprende nulla, s’impara di tutto, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester, e che agogna soltanto a ritrovare il proprio dormiveglia fra i cuscini sbavati e l’orinale sotto il letto”.
Parlava ancora piano, ma la mano attorno a San Pietro si stringeva; più tardi la crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata.
“Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per potar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, manche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità, voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semidesti; da questo il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando sono defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae soltanto perché è morto”.
Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley: soprattutto gli riusciva oscura l’ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero autentiche vecchie tradizioni. Disse: “ Ma non le sembra di esagerare un po’, Principe? Io stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani emigrati, Crispi per nominarne uno, che mi son sembrati tutt’altro che dei dormiglioni”.
Il Principe si seccò: “Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostro semidesti, del resto, avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma lei forse potrà vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso torpore: lo fanno tutti. D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto dire la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio siciliano. Queste sono le forze che insieme e forse più che le denominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’arsura dannata; che non è mai meschino, terra, terra, distensivo, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre  a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora le piogge, sempre tempestose, che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove due settimane prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati, e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove: tutte queste cose hanno formato il carattere nostro, che così rimane condizionato da fatalità esteriori che da una terrificane insularità d’animo”.
L’inferno ideologico evocato in quello studiolo sgomentò Chevalley più della rassegna sanguinosa della mattina. Volle dire qualche cosa, ma don Fabrizio era troppo eccitato adesso per ascoltarlo.
“Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall’isola possano riuscire a smargarsi: bisogna però farli partire molto, molto giovani; a vent’anni è già tardi: la crosta è fatta: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori. ;a mi scusi, Chevalley, mi son lasciato trascinare e la ho probabilmente infastidito. Lei non  è venuto sin qui per udire Ezechiele deprecare le sventure di Israele. Ritorniamo al nostro vero argomento: sono molto riconoscente al governo di aver pensato a me per il Senato e la prego di esprimere questa mia sincera gratitudine; ma non posso accettare. Sono un rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, ed a questo legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell’affetto. Appartengo ad una generazione disgraziata, a cavallo fra i vecchi tempi e i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non ha potuto fare a meno di accorgersi, sono privo di illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà di ingannare sé stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri? Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a quest’ornatissimo catafalco. Voi adesso avete appunto bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al come più che al perché, e che siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità pubbliche”. Tacque , lasciò in pace San Pietro. Continuò: “Posso permettermi di fare a lei un consiglio da trasmettere ai suoi superiori?”.
“Va da sé, Principe; esso sarà certo ascoltato con ogni considerazione; ma voglio ancora sperare che invec di un consiglio vaglia darmi il suo assenso”.
C’è un nome che io vorrei suggerire per il Senato: quello di Calogero Sedara. Egli ha più meriti di me per sedervi: il casato, mi è stato detto, è antico o finirà per esserlo; più che quel che lei chiama il prestigio egli ha il potere; in mancanza di meriti scientifici ne ha di pratici, eccezionali; la sua attitudine durante la crisi di maggio più che ineccepibile è stata utilissima : illusioni non credo che abbia più di me, ma è abbastanza svelto per sapere crearsele quando occorra. E’ l’individuo che fa per voi. Ma dovete far presto, perché ho inteso dure che vuol porre la propria candidatura alla Camera dei deputati”…
“Principe, ma è proprio sul serio che lei di rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare; se gli uomini onesti si ritirano la strada rimarrà libera alla gene senza scrupolo e senza prospettive, ai Sedara; e tutto sarà di nuovo come prima per altri secoli. Ascolti la sua coscienza Principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Collabori”.
Don Fabrizio gli sorrideva, lo prese per la mano, lo fece sedere vicino a lui sul divano: “ Lei è un gentiluomo, Chevalley, e stimo una fortuna averlo conosciuto; lei ha ragione in tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: “i siciliani vorranno migliorare”. ….” I Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una decine di popoli differenti, essi credono di avere un passato imperiale che da loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero lei, Chevalley di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani musulmani, quanti cavalieri di Re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti leghisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti vicerè spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III: E chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è civile, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta in una parola?
“Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato delle cose, qui come altrove, è del feudalismo; mia cioè, per così dire. Sarà. Ma il feudalismo c’è stato dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati Chevalley, o gli squires inglesi o i signori francesi governassero meglio sei Salina. I risultati intanto sono diversi. La ragione della diversità deve essere in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità. Per ora, per molto tempo, non c’è niente da fare. Compiango; ma in via politica, non posso porgere un dito. Me lo morderebbero. Questi sono discorsi he non si possono fare ai Siciliani: ed io stesso, del resto, se queste cose le avesse dette lei, me ne sarei avuto a male”.
L’indomani mattina presto Chevalley ripartì e a Don Fabrizio, che aveva stabilito di andare a caccia, riuscì facile accompagnarlo alla stazione di posta. Don Ciccio Tumeo era con loro e portava sulle spalle il doppio peso dei due fucili, il suo e quello di Don Fabrizio; e dentro di sé la bile delle proprie virtù conculcate.
Intravista nel livido chiarore delle cinque e mezzo del mattino, Donnafugata era deserta e appariva disperata. Dinanzi a ogni abitazione i rifiuti delle mense miserabili si accumulavano lungo i muri lebbrosi; cani tremebondi li ramestavano con avidità sempre delusa. Qualche porta era già aperta ed il lezzo dei dormienti accumulati dilagava nella strada; al barlume dei lucignoli le madri scrutavano le palpebre tracomatose dei bambini: esse erano quasi tutte in lutto e parecchie erano state le mogli di quei fantocci sui quali s’incespica agli svolti nelle trazzere. Gli uomini, abbrancato lo zappone, uscivano per cercare chi, a Dio piacendo, desse loro lavoro; silenzio atono o stridori esasperati di voci isteriche; dalla parte di Santo Spirito l’alba di stagno cominciava a sbavare sulle nuvole plumbee.
Chevalley pensava: “Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione nuova, agile, moderna, cambierà tutto.” Il Principe era depresso: “ Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli…; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra”.
Si ringraziarono scambievolmente si salutarono. Chevalley s’inerpicò sulla vettura di posta, issata su quattro ruote color di vomito. Il cavallo, tutto fame e piaghe, iniziò il lungo viaggio.
Era appena giorno; quel tanto di luce che riusciva a trapassare il coltrone di nuvole era di nuovo impedito dal sudiciume immemoriale dei finestrini. Chevalley era solo: fra urti e scossoni si bagnò di saliva la punta dell’indice, ripulì un vetro per ampiezza di un occhio. Guardò: dinanzi a lui, sotto la luce di cenere, il paesaggio sobbalzava, irredimibile.



domenica 18 ottobre 2015

Scrivere è un dovere

“Dovere” è la parola più sublime nella nostra lingua. Compi il tuo dovere in ogni cosa. Non puoi fare di più. E non dovresti mai fare di meno.
Robert Edward Lee.

Ognuno di noi coltiva delle passioni, nel percorrere la vita ci sono tante strade da potere scegliere. Noi abbiamo scelto quella di scrivere. Da qualche tempo lo facciamo e più passano i mesi, più abbiamo voglia di farlo. Cos’è che ci spinge? Ce lo siamo chiesto più volte. Quando ci troviamo davanti ad un foglio bianco, le parole arrivano spontanee, da subito trovano, ognuna, la propria posizione, come quando si esegue una musica. Scrivere per noi è armonia, è osservare quello che ci circonda avendo consapevolezza che, non ci interessano gli attacchi personali ma, svolgere un ruolo civico con senso di responsabilità. Sollevare polveroni non è il fine di chi scrive entrando nel merito dei fatti e delle situazioni ma, avere voglia di contribuire al dialogo, anche aspro se è il caso, non per colpire la persona ma per correggere e a volte cambiare. Non ci siamo mai sottratti al confronto purché sia educato e civile. Forse abbiamo un’idea sbagliata ma in tal caso è giusto metterla in discussione utilizzando il metro giusto senza cercare sponsor ma assumendoci completamente la responsabilità di farlo. Scrivere per “Le Madonie” ogni mese, è un piacere, condividere i nostri contenuti con chi la Storia di questo paese, in modo sobrio, ironico ed elegante, ha contribuito a farla, è un onore. Scrivere con quella sana curiosità che ci porta a chiederci il perché avvengono cerche cose, è un segno di quello che la filosofia ci ha da sempre insegnato, andare oltre, spingersi alla conoscenza senza avere paura del cambiamento. Criticare il metodo finché si arrivi al merito. Chi fa il proprio dovere, in ogni campo, non ha paura delle invettive, dei travisamenti. Ogni parola compie un atto, serba in sé un pezzo di filo che contribuisce a creare la trama. Non faremo come Penelope, che di giorno tesseva e di notte sfilava, noi non abbiamo timore che il nostro compito sia vilipeso. E’ bella la Castelbuono che compie il proprio dovere, tanti cittadini ogni mattina si alzano per farlo. Non fa parte della nostra storia comune millantare credito ma, mettersi al lavoro e realizzare, all’inizio forse per gioco ma sempre con senso del dovere. Lo dimostrano le tantissime associazioni che operano in tutti i settori e che spesso e volentieri per l’assenza della politica, diventano punti di riferimento del nostro paese. Non siamo più acuti o più intelligenti di altri, non è la superbia che ci guida. Non ci interessa la lite ma sviscerare con forza e determinazione la crisi politica, sociale e culturale in cui versa Castelbuono da qualche tempo; un tempo che, a nostro avviso, ha creato molti contenitori senza contenuti. Il viaggio continua, la curiosità non s’impoverisce, la passione non si spegne. Il senso civico, il senso del dovere, quelli che non abbiamo barattato pur di conservare una poltrona, crescono e si arricchiscono osservando con curiosità. Perché come diceva il filosofo inglese Hume, chiunque compia il proprio dovere, chiunque ami le regole, è un uomo libero.

sabato 19 settembre 2015

Scandalo al sole

“Viviamo in una casa di vetro, non ci conviene tirare pietre”
L’estate appena trascorsa ci ha regalato alte temperature, un mare meraviglioso, rimpatriate con amici lontani, certo qualche disturbo non manca mai ma, nel complesso siamo riusciti a sopravvivere. L’estate castelbuonese passerà ,forse, alla storia come quella condita da diversi scandali.  Il nudo di un famoso cantante al concerto rock  ha mietuto la serenità di molti di noi ,che si sono scatenati in veementi commenti di disapprovazione. Non abbiamo ben chiaro però se lo stesso accade quando, certi nudi, o peggio, scene di violenza gratuita le risparmiamo, giornalmente,  ai nostri bambini.  Un’immagine resterà nella storia dei social, quella che ritrae il Nostro, alquanto compiaciuto, con un personaggio vestito in costume da festa in barca che, accompagnano sorridenti la nostra amata Madre S’Anna. I due sembrano fare una amichevole passeggiata condita da risatine e chiacchiere, altro che rispetto per la Processione! Noi castelbuonesi siamo fieri delle nostre tradizioni che rispettiamo da secoli, per cui ci siamo indignati moltissimo per la presenza del compagno di processione, visto e considerato che le ultime sue mosse “politiche”, sono state deludenti e per di più imbarazzanti per l’intera Sicilia. Notti insonni ci hanno fatto passare! Ma a pensarci bene non dovevamo indignarci. In processione ognuno sceglie il suo compagno, quello che lo affiancherà per tutto il tragitto. Così, rispettando la tradizione, il Nostro ha scelto un uomo simile a lui; se ci pensiamo hanno molto in comune: stessa crisi amministrativa, stessa politica improvvisata, assessori che vanno e vengono, nessuna capacità decisionale, nessuna programmazione, nessuna politica per la crescita del territorio e potremmo continuare ancora e ancora… Dovevamo rifletterci prima, siamo stati incauti amici…siamo sicuri che la prossima volta saremo più preparati! Il vero scandalo però è che  non ci indigniamo abbastanza (neanche la politica lo fa, agosto politica non ti conosco!!!), per la spazzatura lasciata ovunque, per l’ennesima chiusura della circonvallazione, per il traffico in tilt, per il dispendio scellerato di soldi pubblici, per il bilancio comunale e delle relative Istituzioni culturali che non arriva, per il prospetto dell’Ex Banca di Corte per l’ennesima volta imbruttito da manifesti orrendi, per il teatro le Fontanelle che non si farà più…Dove sono tutti gli uomini e le donne di cultura che hanno partecipato nel passato alla crescita culturale di Castelbuono? A fine luglio all’assemblea che si tenuta nell’aula consiliare mancavano tutti coloro i quali vivono oggi grazie alle manifestazioni culturali e non cui l’Amministrazione contribuisce. Un vero scandalo. Le lamentele sono del singolo, del cittadino che non ne può più di com’è vessato dalla mancanza di ascolto, come i tanti abitanti della Via Mazzini che, da anni chiedono maggiore rispetto. Nessuno li ascolta.

E allora Castelbuono è come una  grande casa di vetro, alla quale non conviene tirare le pietre per non dovere infrangere la propria immagine riflessa?  

martedì 21 luglio 2015

La Fiera della vanità

“Se pure coronati dal successo, alcuni sono soltanto degli sciocchi e dei ciarlatani; ed è per smascherarli e combatterli che è stato inventato il Riso.” 
WILLIAM MAKEPEACE THACKERAY

Inizia l’estate e con la bella stagione si sa, si ha voglia di fare quelle interessanti gite fuori porta.  Vogliamo raccontarvi il soggiorno che abbiamo vissuto in un paese molto bello, ricco di beni culturali, buon cibo, pulito, aria salubre, boschi e quanto altro. Prima di andare, ci siamo documentati bene, abbiamo letto molte notizie che lo riguardavano, anche libri molto interessanti così ci siamo decisi. In effetti, appena arrivati, abbiamo potuto costatare la bellezza del luogo, il buon cibo. In quei giorni si svolgeva una manifestazione artistico floreale veramente molto bella, peccato non si poteva ammirare nella sua totale bellezza perché, oltre alla calca, qualcuno ha pensato bene di fare anche un infinito corteo storico arricchito da un fragoroso (fin troppo!) suon di tamburi.  Abbiamo chiesto anche che attinenza avesse il corteo con la bella manifestazione floreale. Nessuno, neanche gli organizzatori ci hanno reso una risposta chiara. Anche la gente del luogo era perplessa. Non bastevoli di questo, in quel paese, accanto al corteo storico a un certo punto, qualcuno ha fatto invadere il centro storico da un centinaio di motociclette. Giunte da chissà dove, con notevoli e rombanti rumori e l’inquinamento che  naturalmente emanano. Ma come, proprio dove non si dovrebbe, nella zona a traffico limitato, si permette tutto questo? Continuiamo il nostro soggiorno e apprendiamo con leggero stupore, che un politico locale, non avendo altri meriti da esibire alla sua popolazione, si occupa personalmente, a quanto pare anche con la sua automobile, di raccogliere i rifiuti nel centro storico. Ammirabile ci siamo detti, peccato poi che la notizia sia stata diffusa dallo stesso a mezzo stampa, con un’evidente caduta di stile. E in tutto questo frastuono, un "evento” che non aveva un filo conduttore, si è susseguita nei giorni seguenti, una rassegna teatrale per bambini.  Non in un teatro, quello non si sa ancora se si potrà fare ma, in un parco comunale. Anche in questo caso siamo andati a vedere, ci pareva interessante. Anche qui, ci siamo trovati ad assistere a una passerella di adulti e non di bambini, dove anche un noto scrittore, bravissimo dal pensiero raffinato, è esibito come un “dono/regalo/”, esibito dicevamo,  come un trofeo da tenere stretto e non presentare a nessuno se non ad alcuni scelti cortigiani. Anche in questo caso l’organizzazione non si è resa conto che il bellissimo discorso politico culturale fatto dallo scrittore, non poteva  e non era rivolto ai bambini che si sono mostrati subito abbastanza irrequieti, ma agli adulti. Ci siamo informati e gli adulti che avrebbero dovuto essere presenti, come i rappresentanti delle Istituzioni erano tutti assenti.  Anche in questo caso pubblicità a gogò, non per l’evento in sé ma, per gli organizzatori. Un po’ delusi dalla nostra vacanza che speravamo potesse unire l’aspetto culturale a quello ambientale, ci avviamo a tornare a casa, pensando che forse, quel meraviglioso paese, raccontato da molti come la mecca del turismo di qualità, sia oggi, in verità, soltanto una mera fiera delle vanità.

venerdì 19 giugno 2015

Castelbuono si racconta

"Un'Italia seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto. E quest'Italia, un'Italia che c'è anche se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade". Oriana Fallaci

Oggi vogliamo giocare con le parole, in senso buono ovviamente, e vogliamo farlo cercando di essere ironici e malinconici allo stesso tempo. La bellissima frase di Oriana Fallaci, ci riporta al senso della Festa della Repubblica, a quella dignità che, persa chissà dove, dobbiamo impegnarci a ritrovare. Il senso del rispetto verso gli altri e verso le Istituzioni, cardini della nostra Democrazia, sono punti di riferimento che dobbiamo avere il dovere di imprimere dentro la nostra mente, ogni giorno. E giocando, se cambiamo per un attimo il termine Italia con Castelbuono, il gioco è fatto. Una Castelbuono seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa quindi meritevole di rispetto…Tutto quello che manca oggi a Castelbuono, alle sue strade invase dal traffico, al centro storico deturpato da manifesti di sagre e soste abusive a ogni ora. Una Castelbuono, maltrattata da una mancanza totale di politica e di rispetto verso l’avversario. Una Castelbuono che, assiste, ad attacchi personali e che secondo il Nostro, oggi, può solo raccontarsi con delle foto affisse alle piantane delle ex soste del bus cittadino. Il progetto, anzi il concorso (addirittura!) si chiama proprio, “Castelbuono si racconta”. Si perché l’idea geniale, in tempi di multimedialità, di Wi-Fi libero, (a proposito che fine ha fatto il progetto di ormai due anni e mezzo fa, tanto osannato, sempre dal Nostro, del Wi-Fi libero in tutto il centro storico?), è che, il turista, non il castelbuonese, dovrebbe essere affascinato talmente tanto da queste foto affisse un po’ ovunque, da ritenerle, quasi un itinerario turistico. Ora ci chiediamo, ma anche le piantane delle periferie fanno parte del progetto? Sempre nel comunicato si legge: “Le stampe, su un supporto particolare, saranno realizzate con il contributo di vari imprenditori castelbuonesi i quali sin da subito possono prenotare, fino al 30 giugno...”, la notiamo solo noi l’incongruenza? L’amministrazione da per scontato che i commercianti pagheranno la stampa e messa in opera delle foto, salvo poi aprire una prenotazione. Delle due una, o è stato fatto un accordo precedente e quindi non c’è bisogno della prenotazione …oppure…Oppure siamo alle solite, e ci chiediamo che interesse avrebbero i  commercianti a fare un’operazione del genere? Ci chiediamo anche, perché non si propone alle tante attività commerciali che, in passato, hanno usufruito dell’incredibile ascesa turistica di Castelbuono, un vero progetto turistico in collaborazione con l’Amministrazione e le associazioni? Come, per esempio, fare diventare il Parco delle Rimembranze area di sosta per i turisti? Perché non si ripristinano sempre al Parco delle Rimembranze i bagni pubblici?  Perché non si propone la chiusura definitiva del centro storico alle auto, anche a quelle comunali e degli amministratori? Perché  non ci sono progetti di restauro? Perché quelli in avvio sono stati accantonati? Abbiamo davvero bisogno di fermarci davanti un “palo” , guardare una foto per essere fieri delle bellezze architettoniche e paesaggistiche che abbiamo? E’ davvero questa la Castelbuono che si racconta? E se Castelbuono potesse parlare, oggi, cosa direbbe?   Sarebbe ora, di mettersi a lavorare seriamente, di chiedere a chi le idee le ha, di mettersi in gioco, e questo vale per tutti, non solo per il Nostro. E’ giunto il momento di onorare la Festa della Repubblica, in modo solenne, non con un improvvisato comunicato affisso, neanche a crederci, anche nelle nostre scuole. Come se, la vicinanza e il rispetto per la democrazia, avessero bisogno dell’ennesimo comunicato non di politiche di educazione civica piena e consapevole. I veri maestri sono quelli che insegnano ai loro allievi le bellezze affinché possano a loro volta trasmetterla. A Castelbuono, salvo i cortigiani dell’ultima ora, arroccati su posizioni ridicole e indifendibili dignitosamente, ci sono ancora buoni maestri?
 

lunedì 18 maggio 2015

Libertà e lavoro

 “Che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall’alto… Il popolo italiano consacra alla memoria dei fratelli caduti per restituire all’Italia libertà e onore la presente Costituzione”.
Piero Calamandrei

Ci sono date nella storia di un Paese, che ne segnano profondamente la vita e il percorso umano e civico che il suo Popolo ha compiuto. Il 25 aprile appena trascorso ci ha ricordato che settanta anni fa l’Italia era finalmente liberata dalla dittatura. E’ stata una giornata segnata da molte celebrazioni; il Capo dello Stato si è recato al Teatro Piccolo di Milano, simbolo con il suo mecenate Giorgio Strehler, proprio di quel 25 aprile del 1945, quando invitò tutti i musicisti di Milano a suonare per la libertà, in tutte le strade della città. Molte commemorazioni sono state anche commoventi, come il ricordo delle molte stragi ad opera dai nazi fascisti, come Sant’Anna di Stazzema per citare, forse quella più rappresentativa, nella quale furono trucidati, in poche ore 560 civili italiani. Bellissimi e molto forti i ricordi di tutti i partigiani, ormai anziani, che in moltissimi programmi TV ci hanno ricordato che non si finisce mai di avere coraggio e di combattere per la libertà e la dignità del proprio Paese e della propria storia. Ed è sempre la storia, il nostro chiodo fisso, la base da cui partire per spiegare il presente. Il nostro presente oggi è caratterizzato da una politica che a Castelbuono dimentica il 25 aprile e il suo significato. La storia della mancanza delle bandiere sul prospetto del Municipio che i gruppi consiliari avversi al Sindaco hanno denunciato, oggi, proprio il 25 aprile assume un significato ancora più rilevante. Non ci sono simboli a Castelbuono che aiutano a comprendere quella storia, che rende onore al senso patriottico. Non ci sono state manifestazioni, non ci sono state commemorazioni, ma come direbbe qualcuno, foto gaudenti sui social network del Nostro allietato, senza neanche tanta convinzione, durante una scampagnata.  E se l’attuale amministrazione è sorda ai richiami del senso civico più profondo, spiace costatare che neanche le Istituzioni culturali hanno reso onore al 25 aprile. Anche il Primo maggio, altra data indicativa, oggi più che mai vista la grave crisi lavorativa, a Castelbuono si è ridotta a un menù a pagamento, servito nel solo parco pubblico, chiuso sempre alle famiglie e ai bambini ma, aperto per l’occasione. Non si ha notizia che in quella sede, si sia dibattuto di lavoro, si siano invitati ospiti, si siano avviati dialoghi, riflessioni. E anche lì foto compiacenti di fritture caserecce e bicchieri in evidenza. Che cosa resterà delle parole di Calamandrei, quale monito sul rispetto delle regole, oggi ahimè calpestate nella nostra amata Castelbuono? Che politica è questa che non si occupa di insegnare agli studenti, che non collabora con le scuole per inculcare il concetto primario che solo rispettando le regole, i luoghi e la storia, una Comunità può avere un futuro migliore e coeso? Quale idea ha del percorso storico l’attuale Assessore alla cultura?  Commovente è l’insegnamento di Calamandrei che ci racconta che le leggi sono scaturite dalla coscienza dell’uomo, come se fossero un tutt’uno. E a Castelbuono le Cassandre, si quelle che celebrano le sagre e gli improvvisati “eventi culturali” continuano nel sonno profondo della mancanza di senso civico e storico, contribuendo a rendere Castelbuono  una finta oasi nel deserto che avanza.

lunedì 20 aprile 2015

La questione morale.

“La questione morale esiste da tempo, ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle Istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico”.
E. Berlinguer

Dopo la denuncia da parte dell’opposizione, degli atti non trasparenti dell’amministrazione comunale, quello cui si dovrebbe pensare, automaticamente, è la questione morale. Molti certamente l’hanno fatto, come non pensare alle parole di Enrico Berlinguer quando si argomentano fatti di così tal rilevanza politica e civica. Al di là delle decisioni che ha preso l’opposizione o altri organi, quello che ci interessa è la questione morale del cittadino e non del politico. Da anni, ormai, si è aperto un dibattito, in tutta Italia, sulla sfiducia che i cittadini nutrono nei confronti della politica. La continua emorragia di voti, di tanti elettori che non vanno più a votare, è un sintomo evidente del disinteresse e della sfiducia. Ora, leggendo qualche commento sui social network, ci sono quelli che s’indignano per chi è di parte, ci sono quelli che legittimamente non comprendono la decisione dell’opposizione e ci sono quelli che vorrebbero derubricare gli atti poco trasparenti con argomenti del tipo: “ ah però ci sono le frane e noi pensiamo alle sedie”; è proprio questo il punto, se non ci fosse una morale di parte, la frase eticamente giusta sarebbe: “ ci sono le frane e ci sono le sedie”. Quando c’è di mezzo la morale, non ci sono argomenti prioritari, non si fa a gara cercando il pretesto per sminuire o per ridicolizzare l’azione di un gruppo politico piuttosto che di un altro. La morale non è appannaggio della politica ma, del cittadino attento che oggi, avendo tutti i mezzi, può liberamente informarsi, stare attento sulla conduzione, da parte della politica, dell’azione amministrativa e governativa. Aristotele, parlava non a caso di zoon politikon, affermava che l’uomo, in quanto animale sociale, è naturalmente portato a occuparsi della politica, affinché possa vivere in armonia con tutti gli altri uomini. Solo gli animali, esseri limitati e Dio che al contrario è onnipotente, secondo il filosofo greco, non hanno bisogno della politica. La politica è come sei ogni giorno, non solo durante le elezioni. E’ principio non uso personale. Il bisogno della politica nei momenti di crisi come questo, in cui a vari livelli ci accorgiamo della mediocrità delle classi dirigenti, dovrebbe farsi più acuto, più attento e non lasciare posto ai tanti “autointellettualoidi” che s’indignano per nulla e che giorno dopo giorno prendono campo con l’antipolitica. Prendere le distanze segnando la differenza. Non il fine personale ma quello comune è ciò che distingue una parte dall’altra.  Invece quello cui assistiamo sono parole vuote di quella parte che si abbarbica a un potere ridicolo e logorato, privo di sostanza e degno dell’apparenza.  Non c’è un Bene più prezioso di quello comune, non ci sono, a nostro avviso, battaglie più emozionanti di quelle che difendono le Istituzioni da quelli che non le rispettano e facendole si rispettano tutti i cittadini. La storia ci ha dato tante testimonianze di uomini e donne coraggiosi che hanno fatto di questo rispetto la loro ragione di vita. Per comprendere e sostenere la morale del Bene comune bisogna essere liberi da condizionamenti di sorta, avendo ben saldo l’ideale e difenderlo ad ogni costo.

domenica 22 marzo 2015

La libertà non è un’opinione

“La libertà di stampa è garantita solo a coloro che ne possiedono una”. 
A.J. Liebling
Le parole sono importanti, come scriveva Ignazio Silone, le parole sono pietre, fanno bene e male. Le usiamo per comunicare, per dire la nostra, riservandoci, quando accade, di scriverle con intelligenza e sensibilità. Il caso che ha riguardato l’allarme di boicottaggio lanciato dal blog Castelbuonolive in realtà è un falso problema. La redazione si è trincerata legittimamente sulla scelta, di continuare a pubblicare in modo del tutto discrezionale commenti anonimi, gridando alla libertà di stampa. Gli risponde, appellandosi sempre alla stessa libertà di stampa, l’altro blog, Castelbuono.org, che invece, attesta la linea del commento firmato. In nessuno dei due casi abbiamo riscontrato la necessità delle due redazioni, di spiegare in cos’altro si distinguono. Riportano spesso le stesse notizie, facendo a gara sul numero di accessi o sui tanto di moda “mi piace”, come se fossero metri idonei a capire dove sta di casa la verità. La libertà di stampa non è una coperta corta, non è appellandosi a essa che la si rispetta di per sé. E così com’è legittimo da parte delle redazioni di pubblicare, di darsi una linea più o meno discutibile, è altrettanto legittimo scegliere il blog o il giornale opportuno cui inviare i propri comunicati. La questione però che vogliamo approfondire è un’altra. La libertà di stampa è evocata da coloro i quali, anche su giornali locali, la utilizzano per colpire il vissuto personale delle persone, i cui nomi utilizzano, senza conoscenza alcuna e spesso solo per colpire la persona e non il suo operato. Questi amano definirsi scribacchini e non giornalisti come, se il solo termine, potesse attestare ancora di più la libertà loro. Invece ottengono l’effetto contrario: la totale mancanza di pudore e senso civico. Articoli privi di contenuto vero, di spessore morale, si aggirano con compiacenti giornali e blog come direbbe qualcuno “giornalai”, con il solo intento di scatenare risse e urla. Ignorano, con l’accezione latina del termine, che scrivere significa assumersi la responsabilità di un’onestà intellettuale che sbandierano, ma dietro la quale non vi è sostanza. E così come gli anonimi cui tutto è consentito purché siano di parte, essi, gli scribacchini, auto valutatisi donne e uomini di cultura, attaccano, provocano, usano inutili pretesti e non si firmano. Anche loro usano l’anonimato di una redazione per colpire e screditare. Scrivono ammettendolo essi stessi, solo dettati, cosa ancora più grave, da percezioni. Il nostro professore di filosofia, ci ha insegnato che prima di emettere un giudizio di qualsiasi genere esso sia, bisogna conoscere, ricercare la verità. Amare lo studio e avere rispetto delle persone e della loro storia, passa attraverso l’educazione al dovere e non al senso discrezionale del diritto di una libertà usata solo per difendere l’indifendibile. La libertà intellettuale è una conquista, è sacrificio è avere il coraggio di mettere in gioco quanto di più prezioso si ha per difendere ora un’idea, ora un’ideale, ora un amico, ora il Bene Comune. Essere liberi, non farsi condizionare è faticoso, costa cara la libertà per questo è scomodo colui il quale la difende, sapendo che pagherà in coerenza. Sconoscono l’ironia, non danno merito neanche alla vecchia tradizione di Castelbuono, la Satira, che con intelligenza colpiva senza ferire. Ancora oggi lo fa e molti dei bravissimi attori che ci hanno deliziato al Veglione, vengono proprio dall’oratorio. Ci vorrebbe per costoro il ritorno di quell’oratorio, non di quello che il senso comune negativamente esprime, ma di quello di qualche anno fa a Castelbuono. Un luogo educativo, di confronto vitale e onesto in cui la persona aveva la possibilità di crescere svolgendo attività creative e spirituali portante avanti con volontariato, intelligenza, coerenza e un forte senso di aggregazione civica e umana.

 Non sanno confrontarsi su certi livelli, fanno serpeggiare, come ci ha abituati certa politica, insinuazioni, voci, percezioni, dicevamo, senza crearsi il minimo scrupolo morale. A questi signori diciamo che il tempo del frastuono è finito, per noi, non è mai iniziato, stiano sereni, comincino, hegelianamente a cercare la verità e non fermarsi kantianamente all’apparenza. Sappiano che crescere è bello, conoscere è entusiasmante, capire è passione, comprendere è amore e lealtà.

venerdì 27 febbraio 2015

Nuovo simbolo di Castelbuono: le panchine

“ Solo su una panchina leggeva dentro di sé. L’anima come un giornale vecchio da accartocciare. Un passato ingiallito ai piedi suoi si posò. Solo su una panchina si addormentò”. (Peppino Di Capri- La Panchina).
I simboli si sa, hanno da sempre , segnato le epoche e le storie dell’umanità. Di recente abbiamo raccontato di cosa era, nel passato, Castelbuono e di quanto amore sia stato riversato ai suoi simboli più importanti, dall’intera Comunità. E siccome non si finisce mai di imparare, oggi in modo stupefacente la nostra amministrazione, e crediamo in particolare, per competenza, il primo cittadino e il neo Ass. all’arredo urbano Marcello D’Anna, che Castelbuono ha un nuovo simbolo. Così importate da dedicargli foto soddisfacenti e comunicato di rito. I più distratti si chiederanno di cosa stiamo parlando, presto detto: delle panchine.  Castelbuono, amici cari, si svecchia, ancora una volta s’innova e abbandona i suoi vecchi e stanchi simboli. Non più il Castello dei Ventimiglia, non più la Piazza Margherita, non più le sue montagne, il bosco, le tante fontane, no oggi come c’è ricordato dall’amministrazione, il simbolo della nostra Comunità è la panchina: Le panchine non sono solo elementi di arredo, ma costituiscono elemento fondamentale e indispensabile delle città, concorrono ad articolare lo spazio urbano e si connotano come l’espressione più immediata dell’immagine di una località”. E’ una notizia che ci deve inorgoglire, che segnerà la differenza rispetto a quanto ci comunicano i paesi limitrofi come Pollina, San Mauro, Gangi e Isnello sui finanziamenti che stanno ottenendo su diversi misure, tutti avuti grazie ad attente politiche di sviluppo e di conoscenza dei bisogni dei cittadini. In effetti a pensarci bene, le panchine fanno arredo, sono come dire, riposanti, e si prestano all’uso che più contraddistingue da qualche tempo Castelbuono: stare fermi.

Peccato che il nostro Primo cittadino e l’efficiente e altrettanto comunicativo Assessore D’Anna non prestino la stessa dedizione al resto del paese. Basta fare una passeggiata per il centro storico in orario di chiusura al traffico e ci si rende subito conto di come, i divieti non siano rispettati. A ogni ora, la Piazza Margherita è invasa dalle auto. Il prospetto della bellissima Ex Banca di Corte, in modo particolare nel periodo estivo, sempre coperto dai mille cartelloni pubblicitari. Immaginate per un attimo se a Firenze facessero la stessa cosa con Palazzo Vecchio, a Roma con Palazzo Chigi, a Palermo con la Cattedrale e potremmo continuare a iosa.  La Piazza Castello, ormai perenne parcheggio selvaggio. Per non parlare della Via Cefalù cui l’importante apertura della nuova Circonvallazione, posta come panacea dei mali del traffico della zona, non sia servita a niente. Anche lì, improvvisazione pura, vista la denuncia fatta in piena inaugurazione dall’Ass. Regionale venuto per l’occasione, sulle condizioni del manto stradale. I mezzi pesanti, infatti, continuano a passare dalla Via Cefalù a qualsiasi ora, congestionando il traffico. Come si pensa di fare turismo di qualità con queste politiche? E’ una Patria senza padri Castelbuono, senza alcun punto di riferimento, il passato non è preso ad esempio per correggere gli errori e spingerci al futuro. Per non parlare dei marciapiedi, vecchi e malandati; davanti a una delle famose panchine sono stati posti anche due grandi vasi. E i pedoni? Forse non meritano rispetto? Come si fa a mettere una panchina su un marciapiede abbastanza frequentato? Bisogna conoscerlo questo paese per amministrarlo. Come ci suggerisce qualcuno abbastanza intelligente: “Non è la sedia che fa la persona ma è la persona che fa la sedia”. Ci chiediamo che fine abbiano fatto gli ambientalisti di Castelbuono che nel passato hanno valorosamente portato avanti battaglie importanti per l’ambiente e la vivibilità di Castelbuono? Coloro i quali hanno contribuito con politiche giuste al miglioramento dell’ordine e della pulizia. Non a caso nel tempo il nostro paese è cresciuto in educazione ambientale e rispetto per il Bene pubblico. Perché oggi tacciono? E’ tutto un insieme quello che avviene, come abbiamo già ricordato, gli atti vandalici, il caos, l’assenza di programmazione, l’improvvisazione continua. Ci chiediamo quali sono i contenuti di queste politiche mordi e fuggi? Che idea si ha di Castelbuono e verso quale futuro si vuole traghettare? Come ogni leader che si rispetti, forse anche il Nostro, ha avuto una “visione” immaginifica del futuro e chissà, magari come recita la canzone: “…Un passato ingiallito ai piedi suoi si posò. Solo su una panchina si addormentò”.

venerdì 16 gennaio 2015

Forma e sostanza

“Qui ad Atene noi facciamo così.

Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
 E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso”.  Pericle –Discorso agli atenisi.

Tutto ciò che esiste per Aristotele è fatto di forma e sostanza, di potenza e di un atto che ne giustifica la natura in se stessa compiuta. Tutte le cose hanno una forma e hanno una sostanza, gli uomini, gli animali, le cose, le regole stesse, anche loro sono dotate di una forma e di una sostanza. Una tazza di tè non è tale se non c’è il tè dentro che la qualifica; ciò significa che la forma, priva della sostanza è destinata a non avere un senso in se stesso compiuto. Anche la politica e in particolare chi Amministra, a vario titolo, è fatto di forma e sostanza ed è a esse che deve sempre tornare. Pericle però, ci conduce a un ragionamento più, se volete, ancora odierno. Oggi la forma ha preso il sopravvento sulla sostanza. La politica che si conduce a Castelbuono è fatta solo di personalismi esasperati e di, come già avevamo avuto modo di scrivere, di comunicati privi di sostanza. Ecco la forma, dicevamo, è l’alleata prediletta di chi, non avendo sostanza si trincera dietro l’apparenza. Avviene così che chiunque, sia contrario alla sola forma, cercando, invece, la sostanza, sia sempre attaccato da chi della forma ne ha fatto il suo unico principio. Di recente, infatti, un consigliere comunale ha scritto un comunicato per ringraziare i commercianti che si sono adoperati, con spirito civico, di addobbare il nostro paese con le luminarie natalizie. Che cosa ha fatto la politica della forma? Invece di unirsi al coro dei ringraziamenti, ha attaccato, offendendolo, chi, ha sentito per primo il dovere di scrivere quei ringraziamenti, invece di ringraziare egli stesso quei cittadini, come asseriva Pericle. La politica della forma è quella che, non avendo sostanza, si scaglia contro tutti quelli che, non sono d’accordo con lei, contro tutti quelli che, credono sia necessario un cambio di rotta per il nostro paese. Come reagisce la politica della forma invece di dare il buon esempio? Con la risata di chi prende in giro, con spavalderia; appropriandosi, non avendone dei suoi, meriti degli altri. Chi è contro la politica della forma commette, in altre parole, delitto di lesa maestà. La politica della forma non si ferma però solo a questo, perché non considerando la sostanza, calpesta costantemente le regole che sono la sostanza, pur di galleggiare. Ed è così che  la non regola diventa diritto acquisito. Ecco allora, programma le manifestazioni natalizie  e non solo, (come emerso dall’ultimo Consiglio comunale del 23 dicembre)  senza prendere impegni di spesa e senza rispettare la prassi amministrativa che è regola e quindi garanzia per tutti i cittadini. Attacca solo ed esclusivamente a livello personale chi non si adatta alla sua forma. Mai riesce a fare una contestazione di merito sul lavoro svolto ma sempre e solo accuse personali. Castelbuono oggi ha una forma strana, è un contenitore che dentro comincia a mancare di valori, diremmo anche, di un’avversione verso le regole. Quello che preoccupa di più è l’educazione distorta delle regole che sta passando. Per costruire ci vuole molto per distruggere poco. Si pensi per esempio alla raccolta differenziata che, di fatto, non esiste più, si pensi alla mensa scolastica distrutta, al caos del traffico, si pensi a tutti quei ragazzi dei quali nessuna delle Istituzioni comunali e culturali si sta preoccupando costruendo percorsi educativi e civici. La politica della forma e non della sostanza, lancia il messaggio che tutto si può fare se si siede su una poltrona istituzionale, perché non sa che, invece, proprio chi siede su quelle poltrone, come diceva Pericle, deve prima di tutti, avere rispetto del prossimo, delle regole, anteponendole a vacui e frivoli privilegi. In tutto questo manca l’aspetto più importante che è quello della stima, che è il livello più profondo dell’amore, del rispetto delle leggi, che da Pericle in poi, tutti i più grandi uomini di politica e di cultura hanno impresso alla nostra civiltà. Ci chiediamo allora, chi è oggi che da il buon esempio?