Il Gattopardo è uno dei classici
più belli ed espressivi della storia della letteratura italiana del Novecento.
L’autore, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, discendente dei Principi Salina di
Donnafugata, taciturno e solitario, non ebbe la fortuna di conoscere il
successo del suo unico romanzo. Il Gattopardo, infatti, sarà pubblicato dopo la
sua morte.
Il romanzo ebbe subito successo,
vinse anche il Premio Strega, forse molti lettori ebbero la possibilità,
leggendolo, di conoscere una parte della storia della Sicilia. Tra le pagine
più belle del romanzo vi è l’incontro tra il Principe Fabrizio e Chavalley,
incaricato dal Governo Sabaudo, di incontrarlo per proporgli un seggio nel
nuovo Senato dopo l’unità d’Italia.
Il dialogo tra i due è ricco di
toni solenni, malinconia, consapevolezza che il Principe oppone allo “sprovveduto”
Chavalley.
Racconta il Principe cosa sono i
Siciliani, come la loro storia sia piena di dominazioni, e come tutte queste
dominazioni non hanno mai cambiato nulla. Siamo arabi, normanni, greci, fenici,
saremo forse sabaudi ma nulla cambierà. Contro la volontà di Chavalley di
volerlo convincere a tutti i costi, il Principe traccia un percorso condito di quell’amara
verità di chi sa che una storia si è finita per sempre. Ha la consapevolezza
che non è più il tempo dei Gattopardi ma degli sciacalli, di coloro i quali inseguiranno
il potere per fini propri, non per quello che Chavalley racconta.
Nel non accettare la proposta, il
Principe, non rinuncia al nuovo, all’ennesima dominazione. Egli rinuncia per
coerenza rispetto a un passato che ha avvantaggiato lui e la sua stessa
famiglia. Il carattere dei Siciliani, è come il clima, torrido per sei mesi e
con piogge torrenziali che allagano impetuosamente. Non guadano al futuro ma
all’imminente, fieri e convinti di avere il passato migliore.
In Sicilia non c’è la norma,
tutto è regolato dall’altezzosità del Siciliano, dal carattere lento che il caldo
ci impone. Siano proprio stanchi perché dominati, perché non ci siamo mai messi
alla prova. Semplicemente qualcuno ci penserà come l’ennesimo dominatore.
Nello spaccato del dialogo, ci
sono allora due realtà quella dei Gattopardi, la classe dirigente del passato
che ha vissuto nei privilegi dei feudi e quella nuova dei Sedara, i nuovi
arrampicatori sociali. Che hanno bisogni di acquistare i titoli nobiliari pur
di emergere e di darsi una connotazione altisonante. Quella del Principe è un’autocritica
spiazzante, sincera, crudele.
Tutto si può comprare, poche sono
le eredità che restano, bisogna che tutto cambi perchè rimanga com’è. I Sedara
rappresentano i nuovi feudatari, coloro che faranno in modo di gestire il nuovo
potere.
La vecchia classe dirigente,
rimarrà chiusa nei palazzi, nelle tenute di caccia, nei saloni da ballo che
hanno arricchito Palermo più di Parigi.
Sono due mentalità quelle che emergono,
da un lato il Principe consapevole che nulla cambierà perché il carattere dei
Siciliani non è mai cambiato anzi è stato avallato dalle tante dominazioni, e l’altra
quella di Chevalley che crede nel cambiamento e nell’efficienza che porterà lo
Stato Sabaudo.
Siamo vecchi, dice don Fabrizio a
Chevalley, siamo stanchi, proprio per questo non perdoniamo agli altri di
volere fare. Noi non vogliamo fare nulla per natura. La Sicilia è sempre stata
Colonia, ha affasciato, ammaliato, conquistato l’animo dei suoi conquistatori
ma mai i Siciliani. Il sonno, dunque, è la sola cosa che i siciliani vogliono. Continuare
a dormire come hanno fatto per millenni.
Attualissime queste pagine, oggi
come allora, nulla è cambiato. Ogni nuovo politico si propone come il
cambiamento, come colui che farà le tanto agognate riforme. In Sicilia le parole
non hanno mai corrispondenza con la realtà, hanno sempre un altro significato.
L’antimafia non è in realtà ciò che la parola significa. La politica non è
occuparsi della cosa pubblica ma, del clientelismo dilagante. Il fare è solo in
relazione alla corruzione. Non esiste la trasparenza, esistono i debiti di
gestioni scellerate, esiste la mancanza del diritto al lavoro, perché dato solo
ad alcuni.
Le strade non sono strade ma,
trazzere. Le ferrovie non sono tali ma, vie ferrate dove per andate da Trapani
a Ragusa ci vogliono sei ore.
Il mare restituisce solo morti e
naufraghi che sperano di salvarsi.
Cosa resta? Il sole, il caldo
torrido, la stanchezza millenaria; il carattere tronfio, noi siamo Normanni,
Greci, Araba, Spagnoli…Noi fummo i Gattopardi e oggi la Sicilia, l’Italia è
piena di Sedara, pronti a lisciarsi i baffi del potere. Attuale come allora le
pagine del Romanzo sono uno spaccato della nostra società.
Leggere il Gattopardo riporta a
un tempo lento e ricco di scene familiari, luoghi, luci e colori sì una Sicilia
autentica, bella, rude e affascinante.
Attuale come allora le pagine del
Romanzo sono uno spaccato della nostra società.
L’incontro tra il
Principe Salina e Chevalley.
…”Ma allora, Principe perché non
accettare?”.
“Abbia pazienza, Chevalley,
adesso mi spiegherò; noi siciliani siamo stati avvezzi da una lunga,
lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che
non parlavano la nostra lingua, a sé spaccare i capelli in quattro. Se non si
faceva così non si scampava dagli esattori bizantini, dagli emiri berberi, dai
vicerè spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto –
adesione-, non avevo detto – partecipazione-. In questi sei ultimi mesi, da
quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state
fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere ad un membro della
vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento. Adesso non
voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo
che molto sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che lei capirà sa solo
quando sarà stato un anno fra noi.
In Sicilia non importa far male o far bene: il
peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di – fare-.
Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che
portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da
fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il là;
noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quando la regina
d’Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per
lagnarmi: è colpa nostra. Ma siamo stanchi e svuotati lo stesso”.
Adesso Chevalley era turnato. “Ma
ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la Sicilia non è più terra di
conquista, ma libera parte di un libero Stato”.
“L’intenzione è buona, Chevalley,
ma tardiva; del resto le ho già detto che in massima parte è colpa nostra. Lei
mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del
mondo moderno; per conto mio vedo piuttosto una trascinata in carrozzino
all’Esposizione Universale di Londra, che non comprende nulla, s’impara di
tutto, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester, e che
agogna soltanto a ritrovare il proprio dormiveglia fra i cuscini sbavati e
l’orinale sotto il letto”.
Parlava ancora piano, ma la mano
attorno a San Pietro si stringeva; più tardi la crocetta minuscola che
sormontava la cupola venne trovata spezzata.
“Il sonno, caro Chevalley, il
sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà
svegliare, sia pure per potar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i
miei dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le
manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, manche le più violente:
la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate
nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità, voluttuosa, cioè ancora di
morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il
nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi
del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro
che sono semidesti; da questo il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni
artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando
sono defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile
fenomeno della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se fossero
antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in
un passato che ci attrae soltanto perché è morto”.
Non ogni cosa era compresa dal
buon Chevalley: soprattutto gli riusciva oscura l’ultima frase: aveva visto i
carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati, aveva sentito parlare
del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero autentiche
vecchie tradizioni. Disse: “ Ma non le sembra di esagerare un po’, Principe? Io
stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani emigrati, Crispi per nominarne uno,
che mi son sembrati tutt’altro che dei dormiglioni”.
Il Principe si seccò: “Siamo
troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostro semidesti, del resto,
avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente,
ma lei forse potrà vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso
torpore: lo fanno tutti. D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i
Siciliani, avrei dovuto dire la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio
siciliano. Queste sono le forze che insieme e forse più che le denominazioni
estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che
ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’arsura dannata; che non è
mai meschino, terra, terra, distensivo, come dovrebbe essere un paese fatto per
la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha
l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina; questo clima
che c’infligge sei mesi di febbre a
quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: maggio, giugno, luglio, agosto,
settembre, ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste;
questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si
lotta con minor successo; lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che
nevica fuoco come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se
un siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere
sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da
tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo
ancora le piogge, sempre tempestose, che fanno impazzire i torrenti asciutti,
che annegano bestie e uomini proprio lì dove due settimane prima le une e gli
altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del
clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche del
passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci
stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in
armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati, e sempre incompresi, che
si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con
concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove: tutte queste cose hanno
formato il carattere nostro, che così rimane condizionato da fatalità esteriori
che da una terrificane insularità d’animo”.
L’inferno ideologico evocato in
quello studiolo sgomentò Chevalley più della rassegna sanguinosa della mattina.
Volle dire qualche cosa, ma don Fabrizio era troppo eccitato adesso per
ascoltarlo.
“Non nego che alcuni Siciliani
trasportati fuori dall’isola possano riuscire a smargarsi: bisogna però farli
partire molto, molto giovani; a vent’anni è già tardi: la crosta è fatta:
rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri,
scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia
fuori. ;a mi scusi, Chevalley, mi son lasciato trascinare e la ho probabilmente
infastidito. Lei non è venuto sin qui per
udire Ezechiele deprecare le sventure di Israele. Ritorniamo al nostro vero
argomento: sono molto riconoscente al governo di aver pensato a me per il
Senato e la prego di esprimere questa mia sincera gratitudine; ma non posso
accettare. Sono un rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente
compromesso col regime borbonico, ed a questo legato dai vincoli della decenza
in mancanza di quelli dell’affetto. Appartengo ad una generazione disgraziata,
a cavallo fra i vecchi tempi e i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e
due. Per di più, come lei non ha potuto fare a meno di accorgersi, sono privo
di illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore
inesperto cui manca la facoltà di ingannare sé stesso, questo requisito essenziale
per chi voglia guidare gli altri? Noi della nostra generazione dobbiamo
ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei
giovani attorno a quest’ornatissimo catafalco. Voi adesso avete appunto bisogno
di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al come più che al perché, e
che siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso
interesse particolare con le vaghe idealità pubbliche”. Tacque , lasciò in pace
San Pietro. Continuò: “Posso permettermi di fare a lei un consiglio da
trasmettere ai suoi superiori?”.
“Va da sé, Principe; esso sarà
certo ascoltato con ogni considerazione; ma voglio ancora sperare che invec di
un consiglio vaglia darmi il suo assenso”.
C’è un nome che io vorrei
suggerire per il Senato: quello di Calogero Sedara. Egli ha più meriti di me
per sedervi: il casato, mi è stato detto, è antico o finirà per esserlo; più
che quel che lei chiama il prestigio egli ha il potere; in mancanza di meriti
scientifici ne ha di pratici, eccezionali; la sua attitudine durante la crisi
di maggio più che ineccepibile è stata utilissima : illusioni non credo che
abbia più di me, ma è abbastanza svelto per sapere crearsele quando occorra. E’
l’individuo che fa per voi. Ma dovete far presto, perché ho inteso dure che
vuol porre la propria candidatura alla Camera dei deputati”…
“Principe, ma è proprio sul serio
che lei di rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare
allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace
questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi
governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare; se gli uomini onesti si
ritirano la strada rimarrà libera alla gene senza scrupolo e senza prospettive,
ai Sedara; e tutto sarà di nuovo come prima per altri secoli. Ascolti la sua
coscienza Principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Collabori”.
Don Fabrizio gli sorrideva, lo
prese per la mano, lo fece sedere vicino a lui sul divano: “ Lei è un
gentiluomo, Chevalley, e stimo una fortuna averlo conosciuto; lei ha ragione in
tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: “i siciliani vorranno
migliorare”. ….” I Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice
ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro
miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se
Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di
raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla;
calpestati da una decine di popoli differenti, essi credono di avere un passato
imperiale che da loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero lei, Chevalley
di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia
universale? Chissà quanti imani musulmani, quanti cavalieri di Re Ruggero,
quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti leghisti del
Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti vicerè spagnoli,
quanti funzionari riformatori di Carlo III: E chi sa più chi siano stati? La
Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe
dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è civile, se è onesta, se è da
tutti ammirata e invidiata, se è perfetta in una parola?
“Adesso anche da noi si va
dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del
quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato delle cose, qui come
altrove, è del feudalismo; mia cioè, per così dire. Sarà. Ma il feudalismo c’è
stato dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati
Chevalley, o gli squires inglesi o i signori francesi governassero meglio sei
Salina. I risultati intanto sono diversi. La ragione della diversità deve
essere in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che
noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità. Per ora, per molto
tempo, non c’è niente da fare. Compiango; ma in via politica, non posso porgere
un dito. Me lo morderebbero. Questi sono discorsi he non si possono fare ai
Siciliani: ed io stesso, del resto, se queste cose le avesse dette lei, me ne
sarei avuto a male”.
L’indomani mattina presto
Chevalley ripartì e a Don Fabrizio, che aveva stabilito di andare a caccia,
riuscì facile accompagnarlo alla stazione di posta. Don Ciccio Tumeo era con
loro e portava sulle spalle il doppio peso dei due fucili, il suo e quello di
Don Fabrizio; e dentro di sé la bile delle proprie virtù conculcate.
Intravista nel livido chiarore
delle cinque e mezzo del mattino, Donnafugata era deserta e appariva disperata.
Dinanzi a ogni abitazione i rifiuti delle mense miserabili si accumulavano
lungo i muri lebbrosi; cani tremebondi li ramestavano con avidità sempre delusa.
Qualche porta era già aperta ed il lezzo dei dormienti accumulati dilagava
nella strada; al barlume dei lucignoli le madri scrutavano le palpebre
tracomatose dei bambini: esse erano quasi tutte in lutto e parecchie erano
state le mogli di quei fantocci sui quali s’incespica agli svolti nelle
trazzere. Gli uomini, abbrancato lo zappone, uscivano per cercare chi, a Dio
piacendo, desse loro lavoro; silenzio atono o stridori esasperati di voci
isteriche; dalla parte di Santo Spirito l’alba di stagno cominciava a sbavare
sulle nuvole plumbee.
Chevalley pensava: “Questo stato
di cose non durerà; la nostra amministrazione nuova, agile, moderna, cambierà
tutto.” Il Principe era depresso: “ Tutto questo non dovrebbe poter durare;
però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli…; e dopo
sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà
saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e
pecore continueremo a crederci il sale della terra”.
Si ringraziarono scambievolmente
si salutarono. Chevalley s’inerpicò sulla vettura di posta, issata su quattro
ruote color di vomito. Il cavallo, tutto fame e piaghe, iniziò il lungo
viaggio.
Era appena giorno; quel tanto di
luce che riusciva a trapassare il coltrone di nuvole era di nuovo impedito dal
sudiciume immemoriale dei finestrini. Chevalley era solo: fra urti e scossoni
si bagnò di saliva la punta dell’indice, ripulì un vetro per ampiezza di un
occhio. Guardò: dinanzi a lui, sotto la luce di cenere, il paesaggio
sobbalzava, irredimibile.
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