lunedì 7 dicembre 2015

Un uomo: l’epica dell’eroe moderno

Leggere “Un uomo” per me è stato fondamentale, è indubbiamente il libro che mi ha cambiato la vita. Oriana Fallaci descrive, con dovizia di particolari il suo incontro con Alekos Panagulis, leader della rivolta contro il regime dei Colonnelli in Grecia. Il libro si apre proprio con la descrizione del fallito attentato che Alekos organizzò con altri, ai danni di alcuni colonnelli del regime. Il libro però è di più, è la storia dell’eroe greco che non si arrende al destino, che lotta per la libertà e per la verità. Come un passaggio di testimone, alla morte di Alekos, avvenuta in un attentato, sarà Oriana Fallaci a continuare la lotta dell’uomo greco, scrivendo la verità sulla sua storia e su parte di quella greca. E’ un libro epico, la storia del singolo diviene storia di un paese, mortificato nel presente e che cerca affannosamente la gloria di un passato glorioso. E’ la tragedia dell’eroe che narra la sua storia, il suo amore, il senso di libertà e di civiltà. E’ la poesia che descrive la realtà e i sentimenti di quest’uomo, mortificati dal regime della dittatura. Questo libro è la Grecia con tutte le sue contraddizioni, è il fiore di gelsomini fuori dalla finestra, è l’isola di creta, dove andare a fare una gita si trasforma in un inseguimento. E’ la madre di Alekos, silenziosa, presente, sempre vestita di nero. E’ il caldo soffocante della casa del giardino di aranci, sono i tanti aerei che Oriana prende per raggiungere Alekos ovunque.  E’ la fragilità di Alekos. E’ la stanchezza che arriva quando la scrittrice decide di sottrarsi a quelle atmosfere cupe e difficili per tornare nella sua quieta e rassicurante New York. E’ il terrore che ciò che è stato, ciò che Alekos ha subito a Boiati possa tornare. E’ il mare cristallino e le strade polverose. E’ un libro forte, violente a tratti che racconta l’umore, l’agitazione, la frustrazione che non si quieta mai. Leggerlo significa immergersi in un mondo che sa di antico in cui gli ideali non muoiono, ma anzi si rafforzano con le sofferenze. La scrittura minuziosa della Fallaci fa sì che il lettore sia un tutt’uno con la storia; chi legge è come se si trovasse lì, ad Atene, a Boiati, nel giardino di aranci, in tribunale…con loro. Si avvertono il senso di paura e l’incolmabile senso d’impotenza verso un mondo truce e corrotto. Il lascito del libro è importante, è un testamento morale, da storia epica, si trasforma in senso profondo di attaccamento a ciò che è il nostro mondo oggi. Sono valori universali quelli che ci racconta la Fallaci, scritto nella seconda metà degli anni settanta, sono odierni ancora oggi. Segno che la ricerca della libertà, della democrazia, del senso di appartenenza a una storia, alla dignità umana sono i valori per cui vale la pena di lottare sempre. Oriana che aveva raccontato i conflitti più cruenti degli anni sessanti, ora racconta la storia del suo uomo, non lasciandosi prendere dal senso di sconforto, ma analizzando con sentimento sì ma anche on obiettività la realtà. Ci insegna che è vero che la storia non si fa con i se, belli i capitoli finali in cui ricostruisce tutta la vicenda raccontando i documenti, non le storie che hanno decretato la morte dell’eroe. Battersi dunque per ciò che appartiene a tutti, farlo da soli, senza interessi personali, è segno di coraggio e di amore verso gli altri. “Un uomo” è tutto questo e molto altro ancora. Buona lettura.

“ Quel grido rauco, rabbioso da belva ferita e umiliata. Quel guizzo selvaggio, quelle braccia tese che mi gremivano e mi scuotevano e infine mi chiudevano dentro una morsa di ferro. Quell’alito caldo, quella bocca avida. E quegli occhi, quegli incredibili occhi nei quali avevo visto la luce d’un bosco  che brucia. Per un istante bravissimo fui sul punto di chiederti scusa, riconoscere che anch’io, sebbene non lo volessi, ti amavo. Ma poi incontrai quegli occhi e un terrore mi trattenne: perché c’era la morte in quegli occhi. Per quanto irrazionale e forzato possa apparire, io ti dico che c’era la morte in quegli occhi, l’annuncio di tutto ciò che sarebbe successo negli anni a venire e non avrebbe potuto succedere senza di me, cioè se io fossi stata lo strumento e il veicolo del tuo destino già scritto.  C’era la sconfitta nata con te, la maledizione che ti avrebbe perseguitato fino a una notte di primo maggio per scaraventarti dentro un buco nero di via Vouliagmeni, lo scivolo di un garage con la scritta Texaco. E poi c’erano le agonie, le servitù che mi avresti inflitto riducendomi a un Sancho Panza con suo ronzino, rubandomi alla mia identità, alla mia vita. Guai, ad accettare il tuo amore ed amarti : lo seppi con certezza, in un lampo. E subito mi liberai del tuo abbraccio, della tua bocca, di te, mi precipitai nell’altra stanza, riempii alla rinfusa la borsa da viaggio, chiamai Andrea, gli chiesi se poteva accompagnarmi all’aeroporto: doveva esserci un volo verso le cinque, con un po’ di fortuna sarei riuscita a prenderlo, bastavano dieci minuti? “Bastano” rispose Andrea scattando. Ritto contro il muro,le mani in tasca e un sorriso enigmatico sotto i baffi, tu seguivi la scena in silenzio e non facevi nulla per fermarmi o calmarmi. Solo dopo che abbi salutato tua madre sclamasti: “ Vengo anch’io”. Quindi mi conducesti all’automobile dove mi sedesti accanto, composto: “Andiamo”. Non dicesti altro per tutta la strada, e neanch’io del resto aprii bocca. Sembrava che non ci fosse più nulla da dire. Giunta all’aeroporto scesi, salutai Andrea, ti strinsi la mano, mi stringesti la mano, e “Ciao, iassu”. Ma avevo fatto pochi passi che la tua voce si levò, secca come un ordine: “Agàpi!”. Mi voltai. La tua destra sporgeva dal finestrino con l’indice e il medio levati a segno di V, e sul tuo volto tremava un’ironia affettuosa. “Tornerai! Vincerò! Tornerai”.
Tornai molto presto. Il primo telegramma era giunto l’indomani e diceva: “ Ti aspetto”. Il secondo dopo due giorni e diceva: “ Che aspetti?” . Il terzo dopo quattro giorni e diceva: “ Sono molto triste perché continui a non avere coraggio”. Poi, la settimana seguente, mentre ero a Bonn, mi fu recapitata una lettera dove annunciavi il ricovero alla Policlinica di via Socratous. Insieme alla notizia c’era una breve poesia: “Pensieri d’amore dimenticati/ risorgono/ e mi portano di nuovo alla vita”. C’era anche una nota: “Per te”. Da Bonn avrei dovuto recarmi a New York. Annullai la partenza e cercai un aereo diretto ad Atene. C’era soltanto quello che decollava da Francoforte nel pomeriggio ma noleggiando una macchina fino a Francoforte sarei arrivata in tempo, disse il portiere dell’albergo. Lo feci. E poche ore dopo sbarcavo nel tuo paese, succhiata dall’inevitabile sorte alla quale non sarei più riuscita a sottrarmi. Perché superava perfino l’istinto della sopravvivenza e l’equivoca insidia della felicita.
La felicità è una risata che scoppia alle nove di sera quando il mio taxi si ferma dinanzi all’ospedale e un’ombra sguscia nel buoi, apre lo sportello, mi piomba addosso e dice all’autista : “Grìgoria! Presto!”. Arrivando t’avevo trovato in una cameretta del reparto di Patologia, circondato di medici e di medicine, e sembravi l’infermo più infermo del mondo: “Sto male, molto male…” Ed ora eccoti qui, tutto vispo, risorto, che mi abbracci in un taxi: “Grìgoria! Presto!”. “Ma che fai?” Che ti prende?”. “Sono evaso!”. “Cosa significa evaso?”. “Significa che mi sono alcato, mi sono vestito, ho tirato una botta in testa all’infermiere e sono venuto qui ad aspettarti”. “Una botta in testa all’infermiere?!”. “Si, non voleva lasciarmi andare. Sosteneva che non si può. L’ho messo lì e gli ho risposto: “Guarda che si può”. “Messo dove?”. “Nel mio letto. Ci starà fino a domattina alle cinque. Alle cinque devo tornare a slegarlo”. “Slegarlo?”. “Si ho dovuto legarlo. E anche incerottargli la bocca. Sennò gridava”. “Non ci credo”. “Infatti non è vero. Non è stata un’azione di forza ma di intelligenza. Senti, gli ho detto, a che ora incomincia il tuo turno di riposo? Alle nove, risponde. E a che ora finisce? Alle cinque, risponde. Abiti lontano? Molto lontano, risponde. Ti piacerebbe dormire comodo senza andare a casa? Eccome, risponde. Bene, questo è il mio letto e questo è il pigiama, io prendo le tue scarpe. L’ho spinto su una sedia, gli ho tolto le scarpe, e via. E’ scemo, non si muoverà dalla camera finchè non torno”. “Sicchè rido, rido, libera di ogni esitazione, paura, divertita a scoprire in te un volto che non conoscevo, nemmeno sospettavo, il volto dell’istrionismo gaglioffo e dell’allegria. E tu ridi con me . confessi d’avermi imbrogliato, oggi non stavi male, fingevi, ti hanno ricoverato alla Policlinica per qualche analisi e basta, domani ti dimetteranno. Ride anche l’autista, senza sapere perché, ci osserva nello specchietto retrovisore e ride mentre il taxi attraversa la città illuminata, entra in via Vouluagmeni, passa dinanzi al garage con la scritta Texaco, ci porta al ristorante dove tre anni dopo mangerai per l’ultima volta, poco prima di andare a morire. Ma se gli Dei ce lo annunciassero per metterci in guardia, se ci dicessero che questo è il tuo destino, il nostro destino già scritto, non ci crederemmo ed io replicherei beffarda che il destino non esiste. “Dove andiamo?” “Da Tsaropulos”. “Cos’è?”. “Un posto all’aperto, vicino al mare, ci si mangia il pesce. Ti piace il pesce? “Si”. “A me no. La vigilia dell’attentato cenai  lì e mangia pesce”. “Perché ci andiamo dunque?”. “Perché stasera possa sfidare anche i pesci”.
La felicità è un orgoglio che vibra quando entriamo nel ristorante trafitti dalle occhiate indagatrici ed ostili di coloro per cui non sei un eore ma un mancato assassino, un sovvertitore dell’ordine, nel miglioredei casi un visionario che dovrebbe starsene dov’era: in un carcere ben sorvegliato. Dai loro tavoli si levano i colpetti di tosse offensivi, bisbligi impauriti: “Lui non è…?!” Un damerino da ambasciata esclama: “Look who’s there! Guarda chi si vede!”. Lo capisci e per un attimo ti coglie una specie di smarrimento, ti appoggi a me come a un bastone, incerto se andare avanti o tornare indietro, poi ti ergi con spavalderia e mi conduci a un tavolo esposto alla loro curiosità. I bisbigli crescono e ciascuno ti ferisce quanto una coltellata, lo vedo, a momenti pieghi il capo come a reprimere il male, sopportarlo meglio: che delusione la libertà, che fatica”. Ma le mie dita cercano le tue, le stringono forte per ripeterti che non sei solo, e il tuo volto s’accende: “ Lo so”. E’ bello vivere insieme la sfida. E’ bello anche accorgersi che qualcuno ti sorride, sia pure di nascosto, con la cautela di chi teme di cacciarsi nei guai. Poi un cameriere coraggioso avanza con una bottiglia di vino e ad alta voce ti dice: “Questa la offro io. E’ un onore, Alekos, averti qui”. Il cielo è uno smalto turchino e fitto di stelle, accanto a noi c’è una pianta che sboccia larghe corolle arancioni, a poco a poco ci isoliamo in un incanto che ci consegna a una specie di oblio. O di incoscienza? Entra una fioraia con un cesto di rose, ne agguanti un fascio e me le getti in grembo. Entra un gobbo con un’asta su cui sono appuntati biglietti di una lotteria, ne compri una fila lunghissima e me le posi sul piatto. Ogni tuo gesto è un ingenuo trasporto d’amore, una goffa preghiera d’essere amato, e la spavalderia di prima s’è dileguata. Ti cade la forchetta, ti cade il cucchiaio, e d’un tratto arrossisci come un bambino, mi porgi il regalo tenuto da parte per il mio ritorno: un foglio spiegazzato, coperto da una calligrafia minutissima. “Alekos! Cos’è?” “La poesia che preferisco, Viaggio. Te l’ho dedicata, guada: c’è il tuo nome ora per titolo”. Poi me la traduci con quella voce che sventra l’anima: “ Viaggio per acque sconosciute su una nave – simile a milioni di altre navi- che vagano per oceani e per mari- lungo percorsi dagli orari perfetti- E molte ancora- proprio molte anche queste- ormeggiano nei porti- Per anni ho caricato questa nave- di tutto ciò che mi davano- e che prendevo con gioia sconfinata- e poi- lo ricordo quasi fosse oggi- la dipingevo con colori smaglianti- e stavo attento- che in nessun punto vi cadesse una macchia- La volevo bella per il mio viaggio- E dopo avere atteso tanto proprio- venne infine l’ora di salpare- E salpai…” Qui ti interrompi, mi spieghi che il viaggio è la vita, che la nave sei tu, una nave che non ha mai gettato l’ancora, che non la getterà mai, né l’ancora degli affetti, né l’ancora dei desideri, né l’ancora di un meritato riposo. Perchè non ti rassegnerai mai, non ti stancherai mai di inseguire il sogno. E se ti chiedessi che sogno non sapresti rispondermi: oggi è un sogno cui dai nome di libertà, domani potrebbe essere un sogno cui dare nome verità; non conta che siano o non siano obiettivi reali, conta rincorrere il miraggio, la luce. “Il tempo passava e io- incominciavo a tracciare la rotta- ma non come mi avevano detto nel porto- sebbene la nave mi sembrasse diversa anche allora- così il mio viaggio- ora lo vedevo diverso – senza più ansia di approdi e commerci- il carico mi appariva ormai inutile- Ma continuavo a viaggiare- conoscendo il valore della nave- conoscendo il valore che portavo…” Ed io non mi stanco di ascoltarti.
La felicità è un abbandono che a mezzanotte conduce alla casa con giardino di aranci e limoni dove entriamo in punta di piedi e incuranti dei poliziotti che controllano ogni tua mossa: due agli angoli della strada e due sul marciapiede. E’ un albero di gelsomini che fiorisce sotto la finestra alla quale ci siamo affacciati perché tu ne colga un ciuffo e tu me l’offra insieme alla tua timidezza. E’ una stanza di cui non vedo più lo squallore, le poltrone unte e sbucciate, i soprammobili brutti, gli assurdi diplomi in cornice: perché ci sei tu. E’ un bacio inaspettatamente pudico sulla mia fronte, mentre il vento fruscia tra i rami d’olivo e ci porta la cantilena del mare. E’ una lacrima che inaspettatamente ti scivola già per la guancia mentre sussurri: “ Sono stato tanto solo. Non voglio più stare solo. Giura che non mi lascerai mai”. E’ il tuo volto serio che si avvicina al mio volto serio, i tuoi occhi commossi che affogano nei miei occhi commossi, le tue braccia incerte che cercano le mie braccia incerte, neanche fossimo due ragazzi al loro primo contro d’amore o sapessimo che ci accingiamo a compiere un rito da cui dipenderanno tutti i nostri anni a  venire E’ un silenzio lungo, impressionante, mentre le nostre labbra si toccano con esitazione, si uniscono con decisione, e i nostri corpi si allacciano senza timore, per adagiarsi, cercando gesti dimenticati, agognati e trovandoli per penetrarsi con armonia, di nuovo ed ancora, ed ancora ed ancora, quasi dovesse durare un’eternità. Il tempo ti appartiene ormai, nessun plotone di esecuzione avanza tra gli ordini secchi per condurti al poligono e fucilarti. Dopo ci fissiamo stremati, la testa appoggiata sullo stesso guanciale, ed esclami: “S’agapò tora ke tha s’agapò pantote”. “Cosa significa?” “Significa: ti amo ora e ti amerò per sempre. Ripetilo”. “Lo ripeto sottovoce: “E se non fosse così?” "Sarà così.” Tento un’ultima vana difesa : “Niente dura per sempre, Alekos. Quando tu sarai vecchio e…” “io non sarò vecchio”. “Si che lo sarai. Un celebre vecchio coi baffi bianchi.”. “Io non avrò mai i baffi bianchi. Nemmeno grigi.” “Li tingerai?” “No, morirò molto prima. E allora si che dovrai amarmi per sempre”. Stai parlando sul serio o scherzando? Mi costringo a credere che tu stia scherzando, una lice beffarda guizza nella tua iride nera e un’allegria fatta di molti domani scatena il tuo corpo che subito mi ricopre insaziabile. Né bisogna ripensare a un dialogo sulla veranda : “Noi greci abbiamo la mania della veggenza e della tragedia. Forse perché l’abbiamo inventata.” “Ma di quale tragedia parla?” “V’è solo un tipo di tragedia e si basa su tre elementi: L’amore, il dolore, la morte”.



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