Leggere “Un uomo” per me è stato
fondamentale, è indubbiamente il libro che mi ha cambiato la vita. Oriana
Fallaci descrive, con dovizia di particolari il suo incontro con Alekos
Panagulis, leader della rivolta contro il regime dei Colonnelli in Grecia. Il
libro si apre proprio con la descrizione del fallito attentato che Alekos
organizzò con altri, ai danni di alcuni colonnelli del regime. Il libro però è
di più, è la storia dell’eroe greco che non si arrende al destino, che lotta
per la libertà e per la verità. Come un passaggio di testimone, alla morte di Alekos,
avvenuta in un attentato, sarà Oriana Fallaci a continuare la lotta dell’uomo
greco, scrivendo la verità sulla sua storia e su parte di quella greca. E’ un
libro epico, la storia del singolo diviene storia di un paese, mortificato nel
presente e che cerca affannosamente la gloria di un passato glorioso. E’ la
tragedia dell’eroe che narra la sua storia, il suo amore, il senso di libertà e
di civiltà. E’ la poesia che descrive la realtà e i sentimenti di quest’uomo,
mortificati dal regime della dittatura. Questo libro è la Grecia con tutte le
sue contraddizioni, è il fiore di gelsomini fuori dalla finestra, è l’isola di
creta, dove andare a fare una gita si trasforma in un inseguimento. E’ la madre
di Alekos, silenziosa, presente, sempre vestita di nero. E’ il caldo soffocante
della casa del giardino di aranci, sono i tanti aerei che Oriana prende per
raggiungere Alekos ovunque. E’ la
fragilità di Alekos. E’ la stanchezza che arriva quando la scrittrice decide di
sottrarsi a quelle atmosfere cupe e difficili per tornare nella sua quieta e
rassicurante New York. E’ il terrore che ciò che è stato, ciò che Alekos ha
subito a Boiati possa tornare. E’ il mare cristallino e le strade polverose. E’
un libro forte, violente a tratti che racconta l’umore, l’agitazione, la
frustrazione che non si quieta mai. Leggerlo significa immergersi in un mondo
che sa di antico in cui gli ideali non muoiono, ma anzi si rafforzano con le
sofferenze. La scrittura minuziosa della Fallaci fa sì che il lettore sia un
tutt’uno con la storia; chi legge è come se si trovasse lì, ad Atene, a Boiati,
nel giardino di aranci, in tribunale…con loro. Si avvertono il senso di paura e
l’incolmabile senso d’impotenza verso un mondo truce e corrotto. Il lascito del
libro è importante, è un testamento morale, da storia epica, si trasforma in
senso profondo di attaccamento a ciò che è il nostro mondo oggi. Sono valori
universali quelli che ci racconta la Fallaci, scritto nella seconda metà degli
anni settanta, sono odierni ancora oggi. Segno che la ricerca della libertà,
della democrazia, del senso di appartenenza a una storia, alla dignità umana sono
i valori per cui vale la pena di lottare sempre. Oriana che aveva raccontato i
conflitti più cruenti degli anni sessanti, ora racconta la storia del suo uomo,
non lasciandosi prendere dal senso di sconforto, ma analizzando con sentimento sì
ma anche on obiettività la realtà. Ci insegna che è vero che la storia non si
fa con i se, belli i capitoli finali in cui ricostruisce tutta la vicenda
raccontando i documenti, non le storie che hanno decretato la morte dell’eroe.
Battersi dunque per ciò che appartiene a tutti, farlo da soli, senza interessi
personali, è segno di coraggio e di amore verso gli altri. “Un uomo” è tutto
questo e molto altro ancora. Buona lettura.
“ Quel grido rauco, rabbioso da
belva ferita e umiliata. Quel guizzo selvaggio, quelle braccia tese che mi
gremivano e mi scuotevano e infine mi chiudevano dentro una morsa di ferro.
Quell’alito caldo, quella bocca avida. E quegli occhi, quegli incredibili occhi
nei quali avevo visto la luce d’un bosco
che brucia. Per un istante bravissimo fui sul punto di chiederti scusa,
riconoscere che anch’io, sebbene non lo volessi, ti amavo. Ma poi incontrai
quegli occhi e un terrore mi trattenne: perché c’era la morte in quegli occhi.
Per quanto irrazionale e forzato possa apparire, io ti dico che c’era la morte
in quegli occhi, l’annuncio di tutto ciò che sarebbe successo negli anni a
venire e non avrebbe potuto succedere senza di me, cioè se io fossi stata lo
strumento e il veicolo del tuo destino già scritto. C’era la sconfitta nata con te, la
maledizione che ti avrebbe perseguitato fino a una notte di primo maggio per
scaraventarti dentro un buco nero di via Vouliagmeni, lo scivolo di un garage
con la scritta Texaco. E poi c’erano le agonie, le servitù che mi avresti
inflitto riducendomi a un Sancho Panza con suo ronzino, rubandomi alla mia
identità, alla mia vita. Guai, ad accettare il tuo amore ed amarti : lo seppi
con certezza, in un lampo. E subito mi liberai del tuo abbraccio, della tua
bocca, di te, mi precipitai nell’altra stanza, riempii alla rinfusa la borsa da
viaggio, chiamai Andrea, gli chiesi se poteva accompagnarmi all’aeroporto:
doveva esserci un volo verso le cinque, con un po’ di fortuna sarei riuscita a
prenderlo, bastavano dieci minuti? “Bastano” rispose Andrea scattando. Ritto
contro il muro,le mani in tasca e un sorriso enigmatico sotto i baffi, tu
seguivi la scena in silenzio e non facevi nulla per fermarmi o calmarmi. Solo
dopo che abbi salutato tua madre sclamasti: “ Vengo anch’io”. Quindi mi
conducesti all’automobile dove mi sedesti accanto, composto: “Andiamo”. Non
dicesti altro per tutta la strada, e neanch’io del resto aprii bocca. Sembrava
che non ci fosse più nulla da dire. Giunta all’aeroporto scesi, salutai Andrea,
ti strinsi la mano, mi stringesti la mano, e “Ciao, iassu”. Ma avevo fatto
pochi passi che la tua voce si levò, secca come un ordine: “Agàpi!”. Mi voltai.
La tua destra sporgeva dal finestrino con l’indice e il medio levati a segno di
V, e sul tuo volto tremava un’ironia affettuosa. “Tornerai! Vincerò! Tornerai”.
Tornai molto presto. Il primo
telegramma era giunto l’indomani e diceva: “ Ti aspetto”. Il secondo dopo due
giorni e diceva: “ Che aspetti?” . Il terzo dopo quattro giorni e diceva: “
Sono molto triste perché continui a non avere coraggio”. Poi, la settimana
seguente, mentre ero a Bonn, mi fu recapitata una lettera dove annunciavi il
ricovero alla Policlinica di via Socratous. Insieme alla notizia c’era una
breve poesia: “Pensieri d’amore dimenticati/ risorgono/ e mi portano di nuovo
alla vita”. C’era anche una nota: “Per te”. Da Bonn avrei dovuto recarmi a New
York. Annullai la partenza e cercai un aereo diretto ad Atene. C’era soltanto
quello che decollava da Francoforte nel pomeriggio ma noleggiando una macchina
fino a Francoforte sarei arrivata in tempo, disse il portiere dell’albergo. Lo
feci. E poche ore dopo sbarcavo nel tuo paese, succhiata dall’inevitabile sorte
alla quale non sarei più riuscita a sottrarmi. Perché superava perfino
l’istinto della sopravvivenza e l’equivoca insidia della felicita.
La felicità è una risata che
scoppia alle nove di sera quando il mio taxi si ferma dinanzi all’ospedale e
un’ombra sguscia nel buoi, apre lo sportello, mi piomba addosso e dice
all’autista : “Grìgoria! Presto!”. Arrivando t’avevo trovato in una cameretta
del reparto di Patologia, circondato di medici e di medicine, e sembravi
l’infermo più infermo del mondo: “Sto male, molto male…” Ed ora eccoti qui,
tutto vispo, risorto, che mi abbracci in un taxi: “Grìgoria! Presto!”. “Ma che
fai?” Che ti prende?”. “Sono evaso!”. “Cosa significa evaso?”. “Significa che
mi sono alcato, mi sono vestito, ho tirato una botta in testa all’infermiere e
sono venuto qui ad aspettarti”. “Una botta in testa all’infermiere?!”. “Si, non
voleva lasciarmi andare. Sosteneva che non si può. L’ho messo lì e gli ho
risposto: “Guarda che si può”. “Messo dove?”. “Nel mio letto. Ci starà fino a
domattina alle cinque. Alle cinque devo tornare a slegarlo”. “Slegarlo?”. “Si
ho dovuto legarlo. E anche incerottargli la bocca. Sennò gridava”. “Non ci
credo”. “Infatti non è vero. Non è stata un’azione di forza ma di intelligenza.
Senti, gli ho detto, a che ora incomincia il tuo turno di riposo? Alle nove,
risponde. E a che ora finisce? Alle cinque, risponde. Abiti lontano? Molto
lontano, risponde. Ti piacerebbe dormire comodo senza andare a casa? Eccome,
risponde. Bene, questo è il mio letto e questo è il pigiama, io prendo le tue
scarpe. L’ho spinto su una sedia, gli ho tolto le scarpe, e via. E’ scemo, non
si muoverà dalla camera finchè non torno”. “Sicchè rido, rido, libera di ogni
esitazione, paura, divertita a scoprire in te un volto che non conoscevo,
nemmeno sospettavo, il volto dell’istrionismo gaglioffo e dell’allegria. E tu
ridi con me . confessi d’avermi imbrogliato, oggi non stavi male, fingevi, ti
hanno ricoverato alla Policlinica per qualche analisi e basta, domani ti
dimetteranno. Ride anche l’autista, senza sapere perché, ci osserva nello
specchietto retrovisore e ride mentre il taxi attraversa la città illuminata,
entra in via Vouluagmeni, passa dinanzi al garage con la scritta Texaco, ci
porta al ristorante dove tre anni dopo mangerai per l’ultima volta, poco prima
di andare a morire. Ma se gli Dei ce lo annunciassero per metterci in guardia,
se ci dicessero che questo è il tuo destino, il nostro destino già scritto, non
ci crederemmo ed io replicherei beffarda che il destino non esiste. “Dove
andiamo?” “Da Tsaropulos”. “Cos’è?”. “Un posto all’aperto, vicino al mare, ci
si mangia il pesce. Ti piace il pesce? “Si”. “A me no. La vigilia
dell’attentato cenai lì e mangia pesce”.
“Perché ci andiamo dunque?”. “Perché stasera possa sfidare anche i pesci”.
La felicità è un orgoglio che
vibra quando entriamo nel ristorante trafitti dalle occhiate indagatrici ed
ostili di coloro per cui non sei un eore ma un mancato assassino, un
sovvertitore dell’ordine, nel miglioredei casi un visionario che dovrebbe
starsene dov’era: in un carcere ben sorvegliato. Dai loro tavoli si levano i
colpetti di tosse offensivi, bisbligi impauriti: “Lui non è…?!” Un damerino da
ambasciata esclama: “Look who’s there! Guarda chi si vede!”. Lo capisci e per
un attimo ti coglie una specie di smarrimento, ti appoggi a me come a un
bastone, incerto se andare avanti o tornare indietro, poi ti ergi con
spavalderia e mi conduci a un tavolo esposto alla loro curiosità. I bisbigli
crescono e ciascuno ti ferisce quanto una coltellata, lo vedo, a momenti pieghi
il capo come a reprimere il male, sopportarlo meglio: che delusione la libertà,
che fatica”. Ma le mie dita cercano le tue, le stringono forte per ripeterti
che non sei solo, e il tuo volto s’accende: “ Lo so”. E’ bello vivere insieme
la sfida. E’ bello anche accorgersi che qualcuno ti sorride, sia pure di
nascosto, con la cautela di chi teme di cacciarsi nei guai. Poi un cameriere
coraggioso avanza con una bottiglia di vino e ad alta voce ti dice: “Questa la
offro io. E’ un onore, Alekos, averti qui”. Il cielo è uno smalto turchino e
fitto di stelle, accanto a noi c’è una pianta che sboccia larghe corolle
arancioni, a poco a poco ci isoliamo in un incanto che ci consegna a una specie
di oblio. O di incoscienza? Entra una fioraia con un cesto di rose, ne agguanti
un fascio e me le getti in grembo. Entra un gobbo con un’asta su cui sono
appuntati biglietti di una lotteria, ne compri una fila lunghissima e me le
posi sul piatto. Ogni tuo gesto è un ingenuo trasporto d’amore, una goffa
preghiera d’essere amato, e la spavalderia di prima s’è dileguata. Ti cade la
forchetta, ti cade il cucchiaio, e d’un tratto arrossisci come un bambino, mi
porgi il regalo tenuto da parte per il mio ritorno: un foglio spiegazzato,
coperto da una calligrafia minutissima. “Alekos! Cos’è?” “La poesia che
preferisco, Viaggio. Te l’ho dedicata, guada: c’è il tuo nome ora per titolo”.
Poi me la traduci con quella voce che sventra l’anima: “ Viaggio per acque
sconosciute su una nave – simile a milioni di altre navi- che vagano per oceani
e per mari- lungo percorsi dagli orari perfetti- E molte ancora- proprio molte
anche queste- ormeggiano nei porti- Per anni ho caricato questa nave- di tutto
ciò che mi davano- e che prendevo con gioia sconfinata- e poi- lo ricordo quasi
fosse oggi- la dipingevo con colori smaglianti- e stavo attento- che in nessun
punto vi cadesse una macchia- La volevo bella per il mio viaggio- E dopo avere
atteso tanto proprio- venne infine l’ora di salpare- E salpai…” Qui ti interrompi,
mi spieghi che il viaggio è la vita, che la nave sei tu, una nave che non ha
mai gettato l’ancora, che non la getterà mai, né l’ancora degli affetti, né l’ancora
dei desideri, né l’ancora di un meritato riposo. Perchè non ti rassegnerai mai,
non ti stancherai mai di inseguire il sogno. E se ti chiedessi che sogno non
sapresti rispondermi: oggi è un sogno cui dai nome di libertà, domani potrebbe
essere un sogno cui dare nome verità; non conta che siano o non siano obiettivi
reali, conta rincorrere il miraggio, la luce. “Il tempo passava e io-
incominciavo a tracciare la rotta- ma non come mi avevano detto nel porto-
sebbene la nave mi sembrasse diversa anche allora- così il mio viaggio- ora lo
vedevo diverso – senza più ansia di approdi e commerci- il carico mi appariva
ormai inutile- Ma continuavo a viaggiare- conoscendo il valore della nave-
conoscendo il valore che portavo…” Ed io non mi stanco di ascoltarti.
La felicità è un abbandono che a
mezzanotte conduce alla casa con giardino di aranci e limoni dove entriamo in
punta di piedi e incuranti dei poliziotti che controllano ogni tua mossa: due
agli angoli della strada e due sul marciapiede. E’ un albero di gelsomini che
fiorisce sotto la finestra alla quale ci siamo affacciati perché tu ne colga un
ciuffo e tu me l’offra insieme alla tua timidezza. E’ una stanza di cui non
vedo più lo squallore, le poltrone unte e sbucciate, i soprammobili brutti, gli
assurdi diplomi in cornice: perché ci sei tu. E’ un bacio inaspettatamente
pudico sulla mia fronte, mentre il vento fruscia tra i rami d’olivo e ci porta
la cantilena del mare. E’ una lacrima che inaspettatamente ti scivola già per
la guancia mentre sussurri: “ Sono stato tanto solo. Non voglio più stare solo.
Giura che non mi lascerai mai”. E’ il tuo volto serio che si avvicina al mio
volto serio, i tuoi occhi commossi che affogano nei miei occhi commossi, le tue
braccia incerte che cercano le mie braccia incerte, neanche fossimo due ragazzi
al loro primo contro d’amore o sapessimo che ci accingiamo a compiere un rito
da cui dipenderanno tutti i nostri anni a venire E’ un silenzio lungo, impressionante,
mentre le nostre labbra si toccano con esitazione, si uniscono con decisione, e
i nostri corpi si allacciano senza timore, per adagiarsi, cercando gesti
dimenticati, agognati e trovandoli per penetrarsi con armonia, di nuovo ed
ancora, ed ancora ed ancora, quasi dovesse durare un’eternità. Il tempo ti
appartiene ormai, nessun plotone di esecuzione avanza tra gli ordini secchi per
condurti al poligono e fucilarti. Dopo ci fissiamo stremati, la testa
appoggiata sullo stesso guanciale, ed esclami: “S’agapò tora ke tha s’agapò
pantote”. “Cosa significa?” “Significa: ti amo ora e ti amerò per sempre.
Ripetilo”. “Lo ripeto sottovoce: “E se non fosse così?” "Sarà così.” Tento un’ultima
vana difesa : “Niente dura per sempre, Alekos. Quando tu sarai vecchio e…” “io
non sarò vecchio”. “Si che lo sarai. Un celebre vecchio coi baffi bianchi.”. “Io
non avrò mai i baffi bianchi. Nemmeno grigi.” “Li tingerai?” “No, morirò molto
prima. E allora si che dovrai amarmi per sempre”. Stai parlando sul serio o scherzando?
Mi costringo a credere che tu stia scherzando, una lice beffarda guizza nella
tua iride nera e un’allegria fatta di molti domani scatena il tuo corpo che
subito mi ricopre insaziabile. Né bisogna ripensare a un dialogo sulla veranda
: “Noi greci abbiamo la mania della veggenza e della tragedia. Forse perché l’abbiamo
inventata.” “Ma di quale tragedia parla?” “V’è solo un tipo di tragedia e si
basa su tre elementi: L’amore, il dolore, la morte”.
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