martedì 26 gennaio 2016

Nessuno scrive al colonnello

Tra i romanzi che rappresentano moltissimo la letteratura meravigliosa di Gabriel Garcia Màrquez c’è, indubbiamente il romanzo “Nessuno scrive al Colonnello”. Un colonnello, un gallo e una moglie, questi i tre personaggi che s’incontrano e scontrano continuamente, nell’attesa infinita che giunga una lettera. I due coniugi, poverissimi, vivono nel ricordo costante del figlio morto troppo giovane, egli era legatissimo al suo gallo. Lo cresceva e addestrava per le gare tra galli che solitamente si disputavano in paese. Morto il figlio, è il Colonnello, contro il volere della moglie che continua ciò che il figlio aveva dovuto lasciare. Questo romanzo non è solo il legame tra un padre e un figlio, ma è quello che distingue l’uomo dall’animale. Avere un’idea, portarla avanti ad ogni costo, anche quando di mezzo c’è la fame. La lettera che il Colonnello aspetta è quella dell’agognata pensione che metterebbe lui e la moglie al riparo dalla miseria giornaliera. Ogni giorno, dunque egli spera che sia quello buono, ma i giorni passano, ottobre arriva e con lui le piogge e i malanni. Quello che però rende vivo il romanzo è proprio il gallo, le cure di cui ha bisogno e la costante e metodica attenzione del Colonnello. Può un uomo lasciare consumare pur di salvare un gallo? Nella dispensa non c’è più nulla, allora la moglie propone di mangiare il gallo. Il Colonnello non la prende neanche in considerazione. Il gallo è la loro salvezza, vincerà la gara e sarà il più bello e forte di tutti.
L’idea, aggrapparsi a essa pur di andare avanti. Superare le difficoltà per qualcosa di più umano, per un premio che, dopo tutto, ognuno di noi merita. Il Colonello è un uomo tutto di un pezzo, militare di razza, ordinato e metodico. Si fa la barba sempre nello stesso modo e non rinuncia mai alla sua camicia. Ha combattuto anche con Aureliano Buendia, il protagonista eccezionale di “Cent’anni di solitudine”. E’ uno che ne ha viste. E’ un uomo che, a ben conoscere la sua storia, mai si sarebbe potuto legare così a un gallo. La tenerezza che sprigiona nella cura e nella ostinazione che mette per salvaguardarlo fa di lui un eroe comune, uno che non rinuncia alle sue idee per nulla al mondo. Avere un’idea, ci insegna il colonnello, rende liberi. Avere una meta da raggiungere riempie le giornate, anche quando tutto sembra andare nel verso sbagliato. Andare avanti ad ogni costo, stringere i denti, ammalarsi anche, pur si salvare il principio. Questo è “Nessuno scrive al colonnello”. Romanzo fantasioso, com’è nella prassi di Màrquez e allo stesso tempo umano. Triste e malinconico ma anche ironico. Il finale, tutto da assaporare è proprio la firma di Màrquez.



Il colonnello aprì il barattolo del caffè e si accorse che ne era rimasto appena un cucchiaino. Tolse il pentolino dal focolare, rovesciò metà dell’acqua sul pavimento di terra battuta, e con un coltello raschiò l’interno del barattolo sul pentolino finché si distaccarono gli ultimi rimasugli di polvere di caffè misti a ruggine di latta. Mentre aspettava che l’infusione bollisse, seduto vicino al focolare di mattoni in un atteggiamento di fiduciosa e innocente attesa, il colonnello provò la sensazione che nelle sue viscere nascessero funghi e muffosità velenose. Era ottobre. Una mattina difficile da cavar fuori, anche per un uomo come lui che era sopravvissuto a tante mattine come quella. Per cinquantasei anni – da quando era finita l’ultima guerra civile – il colonnello non aveva fatto altro che aspettare. Ottobre era una delle poche cose che arrivavano1. Sua moglie alzò la zanzariera quando lo vide entrare nella stanza col caffè. Quella notte aveva sofferto una crisi di asma e ora era prostrata in uno stato di sopore. Ma si sollevò per prendere la tazza. “E tu?” disse. “L’ho già preso” mentì il colonnello. “Ne era rimasta ancora una cucchiaiata grande.” In quel momento cominciarono i rintocchi. Il colonnello si era dimenticato del funerale. Mentre sua moglie beveva il caffè, staccò l’amaca da un’estremità e l’arrotolò nell’altra, dietro la porta. La donna pensò al morto. “È nato nel 1922” disse. “Esattamente un mese dopo nostro figlio il sette aprile.” Continuò a bere il caffè nelle pause della sua respirazione rantolosa. Era una donna costruita soltanto di cartilagini bianche su una spina dorsale inarcata e inflessibile. I disturbi respiratori la costringevano a far domande affermando. Quando finì il caffè stava ancora pensando al morto. “Deve essere orribile essere sepolto in ottobre” disse. Ma suo marito non le fece caso. Aprì la finestra. Ottobre si era insediato nel patio. Osservando la vegetazione che prorompeva in verdi intensi, le minuscole cupole dei vermi nel fango, il colonnello sentì di nuovo il mese funesto negli intestini. “Ho le ossa umide” disse. “È l’inverno” ribatté la donna. “Da quando è cominciato a piovere ti sto dicendo di dormire senza toglierti le calze.” “È da una settimana che dormo con le calze.”  Per… arrivavano: la fine delle guerre civili, alle quali aveva partecipato con coraggio, diventa, per il colonnello, la fine della propria ragione di esistere, solo alimentata dalla speranza dell’arrivo di una lettera e dall’esistenza del gallo.  …“È ottobre” mormorò, e si mosse verso il centro della stanza. Soltanto allora si ricordò del gallo legato al piede del letto. Era un gallo da combattimento. Dopo aver portato la tazza in cucina andò nel salotto a caricare una pendola in cornice di legno intagliato. A differenza della stanza da letto, troppo angusta per la respirazione di una asmatica, il salotto era ampio, con quattro sedie a dondolo di vimini attorno a un tavolino con un tappeto e un gatto di gesso. Sulla parete opposta a quella dell’orologio, c’era il quadro di una donna avvolta in veli, circondata da amorini in una barca carica di rose. Erano le sette e venti quando terminò di caricare l’orologio. Poi portò il gallo in cucina, lo legò a un sostegno del focolare, cambiò l’acqua alla bacinella e vi mise vicino un pugno di granturco. Un gruppo di bambini entrò dallo steccato sconnesso. Si sedettero intorno al gallo, a contemplarlo in silenzio. “Smettetela di guardare quell’animale” disse il colonnello. “I galli si sciupano, a furia di guardarli.” I bambini non si scomposero. Uno di loro attaccò sull’armonica gli accordi di una canzone di moda. “Oggi non si suona” gli disse il colonnello. “C’è un morto in paese.” Il bambino si infilò lo strumento nella tasca dei pantaloni e il colonnello andò nella stanza a vestirsi per il funerale. Il vestito bianco non era stirato a causa dell’asma della donna. Di modo che il colonnello dovette decidersi per il vecchio vestito di panno nero che dopo il suo matrimonio usava soltanto in speciali occasioni. Gli costò fatica trovarlo in fondo al baule, avvolto nei giornali e preservato contro le tarme con palline di naftalina. Rigida sul letto la donna continuava a pensare al morto. “Deve aver già incontrato Agustín” disse. “Può darsi che non gli racconti la situazione in cui ci siamo trovati dopo la sua morte.” “A quest’ora staranno discutendo di galli” disse il colonnello. Trovò nel baule un ombrello enorme e antico. Lo aveva vinto la donna a una tombola politica destinata a raccogliere fondi per il partito del colonnello. Quella stessa sera avevano assistito a uno spettacolo all’aperto che non era stato interrotto malgrado la pioggia. Il colonnello, sua moglie e suo figlio Agustín – che allora aveva otto anni – avevano assistito allo spettacolo fino alla fine, seduti sotto l’ombrello. Ora Agustín era morto e la fodera di raso lucido era stata distrutta dalle tarme. “Guarda che cosa è rimasto del nostro ombrello da pagliaccio di circo” disse il colonnello con una sua antica frase. Spalancò sul capo un misterioso sistema di stecche metalliche. “Ora serve soltanto per contare le stelle.” Sorrise. Ma la donna non si prese la briga di guardare l’ombrello. “Tutto è così” mormorò. “Stiamo marcendo vivi.” E chiuse gli occhi per pensare più intensamente al morto. Dopo essersi fatto la barba a tastoni – dato che lo specchio mancava da molto tempo – il colonnello si vestì in silenzio. I pantaloni, attillati alle cosce quasi quanto le mutande lunghe, chiusi alle caviglie con fettucce scorrevoli, si sostenevano alla vita con due linguette dello stesso panno che passavano tra due fibbie dorate cucite all’altezza delle reni. Non usava cintura. La camicia color cartone antico, dura come cartone, si chiudeva con un bottone di rame che serviva al tempo stesso per allacciare il colletto inamidato. Ma il colletto inamidato era rotto e così il colonnello rinunciò alla cravatta. Faceva ogni cosa come se fosse un’azione trascendentale. Le ossa delle sue mani erano foderate di cute lucida e tesa, coperta di chiazze brune come la pelle del collo. Prima di infilarsi gli stivaletti di vernice grattò via il fango incrostato nelle cuciture. Sua moglie lo vide in quell’istante, vestito come il giorno del suo matrimonio. Soltanto allora si accorse come era invecchiato suo marito. “Ti sei messo come per un avvenimento” disse. “Questo funerale è un avvenimento” disse il colonnello. “È il primo morto di morte naturale da molti anni a questa parte”.

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