Tra i romanzi che rappresentano
moltissimo la letteratura meravigliosa di Gabriel Garcia Màrquez c’è,
indubbiamente il romanzo “Nessuno scrive al Colonnello”. Un colonnello, un
gallo e una moglie, questi i tre personaggi che s’incontrano e scontrano continuamente,
nell’attesa infinita che giunga una lettera. I due coniugi, poverissimi, vivono
nel ricordo costante del figlio morto troppo giovane, egli era legatissimo al
suo gallo. Lo cresceva e addestrava per le gare tra galli che
solitamente si disputavano in paese. Morto il figlio, è il Colonnello, contro
il volere della moglie che continua ciò che il figlio aveva dovuto lasciare.
Questo romanzo non è solo il legame tra un padre e un figlio, ma è quello che
distingue l’uomo dall’animale. Avere un’idea, portarla avanti ad ogni costo,
anche quando di mezzo c’è la fame. La lettera che il Colonnello aspetta è
quella dell’agognata pensione che metterebbe lui e la moglie al riparo dalla
miseria giornaliera. Ogni giorno, dunque egli spera che sia quello buono, ma i
giorni passano, ottobre arriva e con lui le piogge e i malanni. Quello che però
rende vivo il romanzo è proprio il gallo, le cure di cui ha bisogno e la
costante e metodica attenzione del Colonnello. Può un uomo lasciare consumare
pur di salvare un gallo? Nella dispensa non c’è più nulla, allora la moglie
propone di mangiare il gallo. Il Colonnello non la prende neanche in
considerazione. Il gallo è la loro salvezza, vincerà la gara e sarà il più
bello e forte di tutti.
L’idea, aggrapparsi a essa pur di
andare avanti. Superare le difficoltà per qualcosa di più umano, per un premio
che, dopo tutto, ognuno di noi merita. Il Colonello è un uomo tutto di un
pezzo, militare di razza, ordinato e metodico. Si fa la barba sempre nello
stesso modo e non rinuncia mai alla sua camicia. Ha combattuto anche con
Aureliano Buendia, il protagonista eccezionale di “Cent’anni di solitudine”. E’
uno che ne ha viste. E’ un uomo che, a ben conoscere la sua storia, mai si
sarebbe potuto legare così a un gallo. La tenerezza che sprigiona nella cura e
nella ostinazione che mette per salvaguardarlo fa di lui un eroe comune, uno
che non rinuncia alle sue idee per nulla al mondo. Avere un’idea, ci insegna il
colonnello, rende liberi. Avere una meta da raggiungere riempie le giornate,
anche quando tutto sembra andare nel verso sbagliato. Andare avanti ad ogni
costo, stringere i denti, ammalarsi anche, pur si salvare il principio. Questo
è “Nessuno scrive al colonnello”. Romanzo fantasioso, com’è nella prassi di Màrquez
e allo stesso tempo umano. Triste e malinconico ma anche ironico. Il finale,
tutto da assaporare è proprio la firma di Màrquez.
Il colonnello aprì il barattolo del caffè e si accorse che ne era
rimasto appena un cucchiaino. Tolse il pentolino dal focolare, rovesciò metà
dell’acqua sul pavimento di terra battuta, e con un coltello raschiò l’interno
del barattolo sul pentolino finché si distaccarono gli ultimi rimasugli di
polvere di caffè misti a ruggine di latta. Mentre aspettava che l’infusione
bollisse, seduto vicino al focolare di mattoni in un atteggiamento di fiduciosa
e innocente attesa, il colonnello provò la sensazione che nelle sue viscere
nascessero funghi e muffosità velenose. Era ottobre. Una mattina difficile da
cavar fuori, anche per un uomo come lui che era sopravvissuto a tante mattine
come quella. Per cinquantasei anni – da quando era finita l’ultima guerra
civile – il colonnello non aveva fatto altro che aspettare. Ottobre era una
delle poche cose che arrivavano1. Sua moglie alzò la zanzariera quando lo vide
entrare nella stanza col caffè. Quella notte aveva sofferto una crisi di asma e
ora era prostrata in uno stato di sopore. Ma si sollevò per prendere la tazza.
“E tu?” disse. “L’ho già preso” mentì il colonnello. “Ne era rimasta ancora una
cucchiaiata grande.” In quel momento cominciarono i rintocchi. Il colonnello si
era dimenticato del funerale. Mentre sua moglie beveva il caffè, staccò l’amaca
da un’estremità e l’arrotolò nell’altra, dietro la porta. La donna pensò al
morto. “È nato nel 1922” disse. “Esattamente un mese dopo nostro figlio il
sette aprile.” Continuò a bere il caffè nelle pause della sua respirazione
rantolosa. Era una donna costruita soltanto di cartilagini bianche su una spina
dorsale inarcata e inflessibile. I disturbi respiratori la costringevano a far
domande affermando. Quando finì il caffè stava ancora pensando al morto. “Deve
essere orribile essere sepolto in ottobre” disse. Ma suo marito non le fece
caso. Aprì la finestra. Ottobre si era insediato nel patio. Osservando la
vegetazione che prorompeva in verdi intensi, le minuscole cupole dei vermi nel
fango, il colonnello sentì di nuovo il mese funesto negli intestini. “Ho le
ossa umide” disse. “È l’inverno” ribatté la donna. “Da quando è cominciato a
piovere ti sto dicendo di dormire senza toglierti le calze.” “È da una settimana
che dormo con le calze.” Per…
arrivavano: la fine delle guerre civili, alle quali aveva partecipato con
coraggio, diventa, per il colonnello, la fine della propria ragione di
esistere, solo alimentata dalla speranza dell’arrivo di una lettera e
dall’esistenza del gallo. …“È ottobre”
mormorò, e si mosse verso il centro della stanza. Soltanto allora si ricordò
del gallo legato al piede del letto. Era un gallo da combattimento. Dopo aver
portato la tazza in cucina andò nel salotto a caricare una pendola in cornice
di legno intagliato. A differenza della stanza da letto, troppo angusta per la
respirazione di una asmatica, il salotto era ampio, con quattro sedie a dondolo
di vimini attorno a un tavolino con un tappeto e un gatto di gesso. Sulla
parete opposta a quella dell’orologio, c’era il quadro di una donna avvolta in
veli, circondata da amorini in una barca carica di rose. Erano le sette e venti
quando terminò di caricare l’orologio. Poi portò il gallo in cucina, lo legò a
un sostegno del focolare, cambiò l’acqua alla bacinella e vi mise vicino un
pugno di granturco. Un gruppo di bambini entrò dallo steccato sconnesso. Si
sedettero intorno al gallo, a contemplarlo in silenzio. “Smettetela di guardare
quell’animale” disse il colonnello. “I galli si sciupano, a furia di
guardarli.” I bambini non si scomposero. Uno di loro attaccò sull’armonica gli
accordi di una canzone di moda. “Oggi non si suona” gli disse il colonnello.
“C’è un morto in paese.” Il bambino si infilò lo strumento nella tasca dei
pantaloni e il colonnello andò nella stanza a vestirsi per il funerale. Il
vestito bianco non era stirato a causa dell’asma della donna. Di modo che il
colonnello dovette decidersi per il vecchio vestito di panno nero che dopo il
suo matrimonio usava soltanto in speciali occasioni. Gli costò fatica trovarlo
in fondo al baule, avvolto nei giornali e preservato contro le tarme con
palline di naftalina. Rigida sul letto la donna continuava a pensare al morto.
“Deve aver già incontrato Agustín” disse. “Può darsi che non gli racconti la
situazione in cui ci siamo trovati dopo la sua morte.” “A quest’ora staranno
discutendo di galli” disse il colonnello. Trovò nel baule un ombrello enorme e
antico. Lo aveva vinto la donna a una tombola politica destinata a raccogliere
fondi per il partito del colonnello. Quella stessa sera avevano assistito a uno
spettacolo all’aperto che non era stato interrotto malgrado la pioggia. Il
colonnello, sua moglie e suo figlio Agustín – che allora aveva otto anni –
avevano assistito allo spettacolo fino alla fine, seduti sotto l’ombrello. Ora
Agustín era morto e la fodera di raso lucido era stata distrutta dalle tarme.
“Guarda che cosa è rimasto del nostro ombrello da pagliaccio di circo” disse il
colonnello con una sua antica frase. Spalancò sul capo un misterioso sistema di
stecche metalliche. “Ora serve soltanto per contare le stelle.” Sorrise. Ma la
donna non si prese la briga di guardare l’ombrello. “Tutto è così” mormorò.
“Stiamo marcendo vivi.” E chiuse gli occhi per pensare più intensamente al morto.
Dopo essersi fatto la barba a tastoni – dato che lo specchio mancava da molto
tempo – il colonnello si vestì in silenzio. I pantaloni, attillati alle cosce
quasi quanto le mutande lunghe, chiusi alle caviglie con fettucce scorrevoli,
si sostenevano alla vita con due linguette dello stesso panno che passavano tra
due fibbie dorate cucite all’altezza delle reni. Non usava cintura. La camicia
color cartone antico, dura come cartone, si chiudeva con un bottone di rame che
serviva al tempo stesso per allacciare il colletto inamidato. Ma il colletto
inamidato era rotto e così il colonnello rinunciò alla cravatta. Faceva ogni
cosa come se fosse un’azione trascendentale. Le ossa delle sue mani erano
foderate di cute lucida e tesa, coperta di chiazze brune come la pelle del
collo. Prima di infilarsi gli stivaletti di vernice grattò via il fango
incrostato nelle cuciture. Sua moglie lo vide in quell’istante, vestito come il
giorno del suo matrimonio. Soltanto allora si accorse come era invecchiato suo
marito. “Ti sei messo come per un avvenimento” disse. “Questo funerale è un
avvenimento” disse il colonnello. “È il primo morto di morte naturale da molti
anni a questa parte”.
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